sabato 29 ottobre 2011

Zombie Walk: a spasso con gli Zombie

Che camminano lo sappiamo, ce l’ha detto Darabont nella sua fortunata serie The Walking Dead (della quale abbiamo ampiamente parlato in questo articolo), ma trovarsi circondati da non morti che in massa attraversano le strade della nostra città potrebbe essere un’esperienza davvero singolare. 
Eppure non è impossibile. 
Le zombie walk, passeggiate zombie, sono ormai una realtà in tutti gli angoli del globo. Manifestazioni a metà strada tra la parata di carnevale e il corteo di protesta, nella quali tutti i presenti, o almeno quelli più di spirito, se ne vanno in giro conciati come i non-morti. Dagli abiti al trucco, chiunque può trasformarsi nel suo alter ego zombie. 
Ma come è cominciato tutto questo e perché? E come è cambiato il fenomeno negli anni? 
La prima zombie walk è stata fatta a Toronto nel 2003. Sei partecipanti, vestiti come i loro personaggi zombie preferiti, vagavano per le strade senza alcun intento particolare, solo per il divertimento proprio e di chi stava a guardarli. Senza fare una rassegna puntuale dell’evoluzione del fenomeno basta sapere che all’ultima zombie walk di Toronto, i partecipanti erano ben settemila. 
In verità, già nel 2001 era stata organizzata una marcia zombie a Sacramento ma in quel caso l’idea non era nata dalla libera associazione delle persone, bensì per intenti pubblicitari: la zombie walk serviva a promuovere il festival annuale The Trash Film Orgy
Perché allora si considera come primo esempio di Zombie walk quella di Toronto? 
La risposta è semplice. Sono la libera partecipazione e la condivisione di un ideale a rappresentare il fulcro di queste manifestazioni che diventano espressione del “potere della massa”. 
Diciamocelo chiaramente, uno zombie da solo non fa paura a nessuno, un fiume di non-morti invece sì. 
Basta guardare al cinema per capire. Nessuno zombie assassino o serial killer ma sempre gruppi di mostri riuniti in orde fameliche. Insomma, la figura dello zombie rappresenta alla perfezione l’idea della fratellanza, dell’unione, della condivisione di obiettivi e ideali. In negativo, ovviamente, con connotati che affogano nel sangue e nel disfacimento, ma pur sempre pieni di significato. 
È per questo motivo che le zombie walk, nel tempo, si sono evolute sempre più in tal senso, diventando un modo per protestare contro i mali sociali in una maniera un po’ originale, mostrando alla collettività la capacità della massa di darsi un ordine e un’identità. Questo senso di aggregazione è dato anche dalle modalità organizzative comuni a molte delle manifestazioni senza distinzione di tempo, spazio e luogo. 
Le “zombie call”, le chiamate, si diffondono attraverso internet, i blog, i social network, Sono rari i casi in cui l’organizzazione sia esplicita e presente con nomi e persone, il più delle volte anche i “leader” preferiscono rimanere anonimi proprio per sottolineare il grado di appartenenza a un’“orda indifferenziata”. In questo senso esiste un certo grado di affinità con i flash mob. Si fissano luogo, giorno e ora, solo che, invece di essere nudi o intentare una spietata lotta coi cuscini, qui ci si presenta zombificati. 
Il fenomeno è talmente diffuso oltreoceano che gli italiani, da sempre grandi importatori di mode made in USA, non hanno tardato ad appropriarsene. E così, dopo Halloween e il trick or threat ecco fiorire anche da noi l’usanza delle zombie walk
Il primo esperimento in tal senso è stato fatto a Roma nel 2007, una partenza in sordina così come in sordina è stato il bis di Torino l’anno dopo. Bisogna aspettare un paio d’anni perchè le zombie walk italiane acquistino un loro peso. In questo, l’utilizzo dei mezzi di diffusione online ha giocato un ruolo importantissimo. È tramite facebook e i blog che il fenomeno si diffonde. Anche nel nostro Paese, infatti, il metodo delle “chiamate” sembra funzionare alla grande e dal 2010 in poi sono sempre di più le città che accolgono gruppi deambulanti di zombie a vagare per le loro strade. 
La particolarità delle zombie walk italiane, da quelle più improvvisate a quelle che ormai hanno una struttura organizzata alle spalle e sono diventate un appuntamento annuale molto atteso, è la protesta aperta ed esplicita verso la condizione dei giovani. Quasi sempre il leit motiv della parata si basa su idee del genere “questa città è un mortorio”, pensiero che viene esplicitato nei materiali informativi e che ha avuto il suo culmine nella zombie walk di Reggio Emilia con il suo grosso richiamo di pubblico e l’elevata risonanza sui mezzi di comunicazione. Uno sguardo al sito www.reggiozombies.com, basta per rendersi conto di quello che sto dicendo. Già la testata mostra una bella lapide con su scritto "Città mortorio" e ovunque spicca l’accusa a una città che non fa nulla per i giovani. Ci pensano allora i giovani stessi a fare qualcosa: protestano il loro disagio in maniera innovativa, prendendosi sul serio ma nemmeno troppo. 
Non resta che tenere gli occhi aperti e le orecchie all’erta… la chiamata prima o poi arriva! 

(Laura Platamone)

Rot & Ruin, di Jonathan Maberry

Romanzo finalista al Bram Stoker Award e vincitore di altri prestigiosi premi come il Dead Letter Award, il Cybilis Award e il Melinda Award, più che un libro sugli zombie, Rot & Ruin può essere considerato un vero e proprio spaccato sociale, che strizza l’occhio a quel mondo post-apocalittico tipico di film come Mad Max e Resident Evil.
Ma le differenze, a livello di soggetto, sono notevoli.
Tanto per cominciare, nella storia di Maberry non ci sono eroi votati all’azione o al “coattismo” spudorato. C’è un ragazzino, Benny Imura, che all’inizio è quanto di più fastidioso ci si possa ritrovare davanti, un piccolo arrogante capace solo di giudicare gli altri, ma incapace di farlo con obiettività. Tom, fratello di Benny e rinomato Cacciatore di zombie, ai suoi occhi non è altro che un vigliacco, che ha lasciato morire la madre senza muovere un dito per salvarla.
I miti di Benny sono altri, quel Charlie occhio-di-vetro ad esempio, o il suo socio Motor city Hammer, così spavaldi e divertenti, le loro gesta sono raccontate perfino sulle Zombie Card. Peccato che, Benny lo scoprirà a sue spese, si tratti di persone poco raccomandabili.
L’avventura di questo ragazzino è una sorta di viaggio iniziatico che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Questo tratto del romanzo ricorda molto opere statuarie come It di Stephen King, anche se le “dimensioni” qui sono molto più ridotte.
Da sempre chiusa nella piccola cittadina di Mountainside, la gente non è più abituata a pensare con la propria testa. Nel loro piccolo, i cittadini si sentono sicuri. Non sanno quale orrore si nasconde là fuori, nel territorio di Rot & Ruin. E non si tratta solo dei morti che vagano senza sosta, affamati. Si tratta del rispetto per la vita, della dignità umana, della compassione. Valori che tutti sembrano aver dimenticato, a eccezione di Tom Imura. È così che Benny inizia a comprendere perché suo fratello sia tenuto in così alta considerazione da tutti, a Mountanside, perfino dal sindaco.
Le Zombie Card, l’allegra spensieratezza dei suoi amici Lou Chong e Morgie, la bellezza diafana di Nix, che ha un debole per lui da sempre, tutto sfuma e perde consistenza mentre si rende conto del significato delle cose, che prendono improvvisamente forme nuove.
Così Benny viene a conoscenza, grazie a Rob Sacchetto, artista dell’erosione, di ciò che successe veramente la Prima Notte, quando i morti cominciarono a “tornare”. Da suo fratello inizia ad apprendere i segreti della “chiusura”, come Tom ama chiamare le uccisioni di zombie su commissione, cominciando a riflettere sul loro vero significato.
Benny si trova a dover toccare con mano le attività illegali e amorali di Charlie occhio-di-vetro e della sua banda di cacciatori fuori di testa, tutto questo mentre si scatena la ricerca alla Lost Girl, la ragazza leggendaria che da sempre tutti cercano senza riuscire a trovare.
Per Benny, dopo tante domande, cominciano a fioccare le risposte, anche quando non vorrebbe averne. Ma, si sa, con la crescita e l’apprendimento, una vita può cambiare per sempre.
Con questo libro Maberry riesce a divertire, commuovere, appassionare il lettore. E lo invita a pensare. Lo costringe, quasi. A quali siano i veri mali della società, che non è necessariamente quella di Mountainside, ma la nostra, perché Rot & Ruin non è che un miraggio, una possibilità di un futuro verso cui dirigerci, fin da adesso, mentre leggete le righe che sto scrivendo.
Nel complesso si tratta di un bel romanzo, fresco, godibile, che trascina nella lettura senza quasi mai annoiare. Il Terzo Occhio socchiude la sua palpebra, soddisfatto.

(Daniele Picciuti)

venerdì 28 ottobre 2011

"Zombie Institute for Theoretical Studies", fra scienza e teatro

Si tratta di uno scherzo, una “sciarada”, ma davvero perfettamente orchestrata. 
Navigando sul sito ufficiale www.zombiescience.co.uk si nota infatti come lo “Zombie Institute for Theoretical Studies”, ente ovviamente fittizio, abbia partner, patrocini e supporter di una certa autorevolezza, primi fra tutti l'Università di Glasgow e il Festival scientifico della stessa città scozzese. 
Cosa è quindi lo “Zombie Institute”? 
Come dice  il nome stesso, si tratta di un ente di “ricerca” e divulgativo che studia la scienza “vera” che si cela dietro i non-morti. Capo dell'istituto è il Dottor Austin che, come si legge nella sua nota biografica, è un noto “zombologo” (o “zombista”?) nato a Aberdeen e che subito è entrato nel mondo dei non-morti, studiandoli in giro per il mondo e in particolare in Papua Nuova Guinea. 
Il Dottor Austin, come ogni accademico che si rispetti, organizza corsi sull'argomento, lezioni in giro per la Gran Bretagna, prepara materiale didattico e libri di testo, fa parte di commissioni d'esame e di laurea in “Zombologia”. 
Tutto questo e quant'altro è possibile leggere e scaricare dal sito ufficiale, così come conoscere le date delle lezioni aperte al pubblico. Una speciale sezione permette anche di accedere agli esami on-line, divisi in due livelli, che consentono di ricevere il diploma, certificato, di esperto in studi sugli zombie. 
Chi scrive ha avuto occasione di assistere a una lezione del Dr. Austin in occasione del Science Festival di Glasgow nel giugno 2011. La lezione si sviluppa come un mix di serietà e divertimento, di ilarità e di elementi propri degli appassionati di horror con altri che appartengono effettivamente alla comunità scientifica. Slides e power point si alternano con battute e citazioni, rendendo il tutto un gustosissmo spettacolo di 45 minuti, con vere e proprie performance teatrali interattive, capaci di intrattenere, ma anche di parlare realmente di scienza nelle sue varie sfaccettature, dalla fisica alla biologia, per finire  con la medicina e la genetica. 
Per maggiori informazioni: www.zombiescience.co.uk

(Armando Rotondi) 


L'alba degli zombie: l'alterità, il contagio, il mostro post-coloniale



Aprile 2011. 
In libreria è presente un nuovo volume, tre saggi, tre autori eccezionali: Danilo Arona, Selene Pascarella e Giuliano Santoro. Non solo. Il libro è impreziosito da una gustosa intervista a George Romero dello studioso Paolo Zelati. Insomma, finalmente un saggio straordinario, ricco di sorprese e di regali, cultura a 360°, per noi voraci fruitori, zombie musi-cine-letterari, affamati di vera cultura. 
Il titolo è L’alba degli zombie, voci dell'Apocalisse: il cinema di George Romero
L’opera, oltre a essere una vera miniera d’informazioni sul cinema di Romero e non solo (il sottoscritto ringrazia calorosamente), è veramente illuminante nel delineare e sviscerare la figura dello zombie, la sua iconografia, le ragioni culturali, economiche e sociali che hanno portato questo mostro, questo amabile buontempone, a popolare le nostre metropoli. 
Ma cosa si può trovare in questo fantastico saggio? 
Innanzitutto il libro descrive, attraverso alcune milestone, la storia di questi simpatici non-morti attraverso il cinema, la letteratura, la filosofia, le scienze sociali, la cultura popolare. Il volume individua una data cardine, il 1968, con il capolavoro The night of the living dead
Ci si trova subito di fronte a una seria analisi molto approfondita da cui si originano diverse direttrici che vengono successivamente ampliate nelle pagine che seguono. Infatti i film "of the living dead" vengono sapientemente analizzati in tutte le loro componenti, dalla trama, alle scelte estetiche dei registi, alle implicazioni politico-religiose e morali, al sistema economico, al problema etico, tutto quanto ha determinato la nascita, ovvero l’alba dell’icona-zombie. 
Ho trovato veramente illuminante l’analisi socio-antropologica di questa icona, ravvisando dei collegamenti con il lavoro dell’antropologo Michael T. Taussig, professore alla Columbia University e autore del testo The Devil and Commodity Feticism in South America. Questo testo parla del movimento sindacale dei contadini nella valle di Cauca dove è stata introdotta forzatamente la monocultura della canna da zucchero già dall’epoca colonialista spagnola e mostra come da questa frizione sociale, dall’epoca del colonialismo a oggi, scaturisca la figura del Demonio, El Tio, come viene affettuosamente chiamato dagli autoctoni. L’alba degli Zombie cita espressamente proprio l’esempio delle popolazioni coinvolte nella monocultura della canna da zucchero accomunandole a quelle presenti ad Haiti, delineando una particolare e illuminante analisi di antropologia comparata relativa al ruolo dell’icona-zombie all’interno delle società. 
Provo ad approfondire quest’aspetto perché che mi è molto caro. Per prima cosa, non ci vuole molto per capire che siamo nell’ambito dei rapporti sociali legati ai sistemi economico-religiosi. In particolare, emergono in maniera molto chiara il disagio e la frizione, in termini sociali, che rappresenta l'imposizione del proprio sistema religioso e, di seguito, del proprio sistema economico (basato sulla schiavitù in epoca coloniale e sul salario in epoca più recente) a popolazioni che hanno già i propri. 
Per le popolazioni indigene si è trattato di un completo ribaltamento culturale. Senza entrare nel dettaglio delle pratiche magiche o delle credenze come effetti che ha prodotto l’imposizione del sistema religioso ed economico europeo sulla popolazione indigena, vorrei menzionare un divertente aneddoto, definito barocco dal suo autore Lévi-Strauss, che dovrebbe chiarire il ribaltamento della prospettiva di queste popolazioni al momento dello sbarco dei colonizzatori nel nuovo mondo: «Nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta dell'America, mentre gli Spagnoli spedivano commissioni d’inchiesta per stabilire se gli indigeni fossero o no dotati di un'anima, questi ultimi si occupavano di immergere i prigionieri bianchi sott'acqua per verificare, con una sorveglianza prolungata, se il loro cadavere fosse o meno soggetto a decomposizione»
Al di là del pregiudizio etnocentrico di entrambe le società, c’è da chiedersi principalmente come abbia impattato l’introduzione forzata della monocultura in un sistema economico basato sullo scambio e sui rapporti sociali. Quali effetti ha portato la trasformazione del contadino precoloniale e preliberista in schiavo prima e salariato poi? Gli elementi che segnano il mutamento di prospettiva e determinano il meccanismo di sostituzione sono sostanzialmente due, frizione sociale e sincretismo religioso. Ma cosa c’entrano con gli zombie?

Il decostruzionismo dialettico ha prima individuato e poi messo in evidenza come la rimozione dei rapporti sociali dai sistemi economici abbia sviluppato nell’immaginario collettivo una sorta di magia delle merci e degli oggetti. Poi c’è un elemento più generale rappresentato da un cambio di prospettiva culturale agli inizi del ‘900 che interessa tutte le culture, soprattutto la nostra. Si fa riferimento alla nascita dell’economia come scienza avulsa dal contesto sociale. Insomma, agli inizi del ‘900, l’economia inizia a perdere il valore di economia politica in senso aristotelico, laddove l’economia era considerata economia di persone e rapporti sociali e non economia intesa solo come scienza di indici e di grafici dotati di linea di tendenza. 
Faccio un esempio concreto: se ho del denaro e voglio investirlo o acquistare delle azioni posso portarlo in banca e attendere che questo s’incrementi. Nel fare questo, generalmente non considero più che dietro il mio interesse c’è un fitto scambio di rapporti sociali ma osservo, come per magia, la mia percentuale e il denaro che si incrementa. Il problema nel mio caso non si pone, dal momento che di denaro non ne ho. Ma, a parte facili battute, quello che voglio chiarire è che la percezione che il denaro, alla fine, sia un oggetto inanimato e la consapevolezza che sono i rapporti sociali tra le persone che lo incrementano, diviene ogni giorno più labile. La verità è che questo concetto, nella società attuale, passa in secondo piano in favore della magia di una fruttificazione del denaro. 
Il simbolismo latente all’interno della nostra società mostra anche nella scelta dei termini l’animismo legato a questi aspetti. Parliamo di bull market o di bear market per mercati in rialzo o in ribasso quasi a rappresentare il denaro come un essere animato che possa incrementare da sé la propria prole. Ci sono esempi diffusi che mostrano come un sistema ideologico, basato su questo grosso equivoco, mistifichi e feticizzi continuamente, attraverso varie simbologie, qualsiasi aspetto del nostro vivere quotidiano. 
E i rapporti sociali, il lavoro, le persone? 
Sì, perché sono sempre le persone il vero valore dei nostri sistemi. Oggi, il mandato è chiaro, dalle persone dobbiamo difenderci. Ebbene la magia, il misticismo che scaturisce dalle merci unitamente alla cancellazione dei rapporti sociali e del concetto di alterità, e il sincretismo religioso arrivano a determinare quella frizione sociale particolare che determina l’ansia del diverso e la nascita di quello che, con una geniale intuizione, il libro L’alba degli zombie identifica e poi definisce chiaramente come il Monstrum post coloniale. 
Sono rimasto impressionato da questa definizione che, con tre parole, sintetizza tutta una serie di relazioni storiche, antropologiche e sociologiche che culminano nel nostro vivere quotidiano. Non mi dilungo su ciò che lo scontro di sistemi economici e sociali ha portato all’interno di queste culture, rituali, feticci, demoni, zombie, pratiche magiche varie. Una cosa è certa. Il sistema preliberista delle popolazioni della filiera della canna da zucchero in Sud America e ad Haiti si basava sulle relazioni sociali, il sistema liberista (che i rapporti sociali li ha progressivamente rimossi tutti, in virtù della magia delle merci), ha imposto il proprio sistema religioso creando un Monstrum che per Haiti è diventato lo zombie. 
Ma Romero si spinge più avanti. Questo processo simbolico di rimozione dell’alterità e di creazione della magia e successivamente del mostro, come illustra chiaramente il saggio con delle intuizioni geniali, si sposta progressivamente anche presso la nostra società. I motivi? Esattamente quelli sopra descritti. 
Arona riporta, a un certo punto del saggio, un passo di Paolo Zelati: «La notte dei morti viventi ha anche il merito di sottrarre il cinema horror per usare le parole di Carpenter “all’abbraccio mortale del gotico e di trasportare l’orrore che, sino ad allora, era quasi sempre stato ritratto e identificato in un luogo “altro”, direttamente negli Stati Uniti d’America». Arona, Zelati e Carpenter si riferiscono all’estetica filmica e alle scelte artistiche ma questo periodo mi fa pensare all’operazione culturale, in senso sociale e politico, che esegue Romero nel far nascere gli zombie nella nostra rassicurante società dei consumi, mostrando come essa non sia immune al contagio culturale ma sia impregnata fino alle fondamenta da questo germe magico-economico. 
Per Romero, diversamente da altri registi che hanno voluto raccontare lo zombie, non c’è un posto circoscritto in cui far nascere il mostro dell’alterità. Anche la nostra società, è luogo «altro». La nostra società si prepara all’apocalisse psichica. La nostra cultura vede l’alba degli zombie e l’inanimato, ciò che è morto, come per magia inizia a muoversi e il male, lungi dall’essere l’ennesimo rapporto sociale (ovvero ciò che l’uomo può commettere nei confronti di un proprio simile), assume magicamente un valore ontologico.
Non solo. Lo zombie per alimentarsi ha bisogno di distruggere l’altro, di mangiarlo, di consumare. È animato da una fame inesauribile. A pagina 77 del libro, ne L’alba degli zombie si legge: “Si sottolinea come terreno da conquistare, in una situazione di super-emergenza, sia ancora di natura squisitamente economica” parlando di un centro commerciale. Il diavolo, El Tio, presso le popolazioni in Sud America, lo zombie, presso le popolazioni di Haiti, il morto vivente nella nostra società, tutti diventano il simulacro dell’alterità negata e sublimata nella magia delle merci.
La paura dell’alterità diventa fobia del contagio.
È evidente, nel saggio, come la zombificazione dei rapporti sociali sia una malattia culturale, la trasformazione di una classe sociale che sopravvive alla propria morte (senza rapporti sociali la società muore), la perpetuazione di un sistema basato sui consumi che impara a mangiare l’altro per sopravvivere.   Ne consegue, come illustra Arona riprendendo il tema della teofagia, come il discorso verta sempre su questioni che sublimano l’aspetto religioso e pulsionale, a cui aggiungerei, se mi è consentito, partendo da questa sua calzante intuizione, quello economico. 
In questo contesto, il contagio è la trasmissione di un morbo concettuale che viene «inoculato» nelle coscienze dalla mistificazione culturale che opera nella nostra società. Concludo sperando di non aver annoiato e invitando chiunque legga queste mie laboriose righe a leggere questo saggio meraviglioso che, spiegando gli zombie, parla di noi. 

(Luigi Bonaro)


giovedì 27 ottobre 2011

Fine del mondo in cinque tempi (di Biancamaria Massaro)


Da quando il cinguettare dei passeri ha sostituito il rombo dei motori, la natura ha cominciato a invadere le città. Piante rampicanti già arrivano al primo piano degli edifici e ricoprono automobili ferme da tempo. È da poco passata l’alba quando il fiore apre al sole i candidi petali, mostrando trionfante il suo cuore dorato. È una comune margherita che si è fatta strada tra le crepe dell’asfalto. A causarne la morte non sarà la mano di un bambino che vuole offrirla alla madre, ma il calpestio prodotto da una massa in eterno movimento. Si sposta lentamente, come lenta è stata la fine del mondo.

La dottoressa Irina Sastri salì in ascensore con i colleghi senza guardarsi allo specchio. Non lo faceva più da quando un ragazzino, l’unico rimasto ancora ben educato, le aveva lasciato il posto sull’autobus. Creme costose, palestra e interventi estetici avevano a lungo nascosto l’evidenza, ma ormai doveva arrendersi: stava invecchiando. Glielo ricordavano i giovani amanti di cui si circondava, che ormai solo a pagamento le dicevano che era bella e desiderabile. Era un processo davvero irreversibile? No, come sperava di dimostrare insieme alla sua equipe. Sulle cavie aveva raggiunto già un buon risultato con la rigenerazione cellulare, perciò si poteva passare a un organismo intero. Sicuramente quello di un maiale: per molto tempo infatti non le avrebbero concesso di sperimentare il composto su un essere umano. Irina però non poteva più permettersi di aspettare, voleva liberarsi dalla pesantezza degli anni. Desiderava subito l’occasione di rifarsi una vita, una in cui non avrebbe sacrificato il matrimonio e la possibilità di essere madre in nome della scienza e della speranza di un nobel. Era nauseata dall’elegante attico vista Colosseo, ristrutturato e arredato da un famoso architetto, che ogni sera l’accoglieva freddo e vuoto come un’ospite invadente e indesiderata. Irina non scese a mensa con i suoi collaboratori, così poté iniettarsi il β3T senza che nessuno la vedesse, poi disse che si sentiva male e tornò a casa. Sparsi sul pavimento dell’ingresso c’erano ancora i pezzi dello specchio che aveva distrutto perché le aveva restituito l’immagine di una donna anziana. Il giorno dopo avrebbe scoperto se valeva la pena comprarne un altro.

Il mese seguente il β3T aveva cambiato nome in Rigenera ed era pronto con cinque anni di anticipo a essere lanciato sul mercato esclusivo dei ricchi e potenti della terra. La dottoressa Irina Sastri era stata nell’ordine: licenziata, radiata dall’ordine dei medici, accusata di furto, additata come mostro e allo stesso tempo adorata come una dea, infine riassunta come testimonial dalla stessa società che l’aveva cacciata come ricercatrice. La sua ritrovata giovinezza spiegava infatti più di mille parole gli effetti del nuovo farmaco. Quando era costretta a parlare dei processi metabolici che attivava il Rigenera, Irina abbandonava il linguaggio scientifico che l’aveva accompagnata fin dall’università e spiegava che le cellule giovani si nutrivano di quelle vecchie, eliminandole. Era ospite fissa in molti talkshow dove inevitabilmente qualche suo ex collega le chiedeva se aveva pensato agli effetti collaterali del Rigenera. «Dopo averlo assunto», rispondeva, «si prova un grande appetito e si soffre di una lieve carenza di ferro. Consiglio a chi lo prova di mangiare subito dopo una bella bistecca al sangue e un po’ di verdura fresca». Preferiva nascondere il fatto che da trenta giorni mangiava solo carne cruda e non toccava una foglia di insalata. Non confessò nemmeno che a letto i suoi amanti cominciavano a lamentarsi dell’ardore che dimostrava quando li mordeva a sangue, scambiando per focosa passione ciò che era sempre più simile alla bramosia di carne umana.

Quella sera Irina stava tornando a casa, cercando di schivare i giornalisti che le chiedevano se sperava di essere nella rosa dei candidati al nobel per la medicina. Un tempo le sarebbe importato, ora non più: in cima ai suoi pensieri c’era qualcosa di inconfessabile, qualcosa che, dopo che con un morso aveva quasi staccato il capezzolo sinistro all’ultimo amante, le era costata già una denuncia. Appena uscì dalla macchina tre spari la colpirono alla schiena. «È la fine che meritano i traditori dell’umanità», avrebbero rivendicato sulla loro pagina facebook gli evoluzionisti, dimostrando che la lotta contro il Rigenera che portavano avanti da mesi aveva abbandonato la via pacifica. Nello stesso momento in tutto il mondo altri terroristi cercavano di uccidere i ricchi e i potenti che si erano potuti permettere il Rigenera. Irina sentì il sangue che le bagnava il vestito da sera e capì che sarebbe morta, nonostante l’arrivo quasi immediato dei soccorsi che le tamponarono le ferite e le misero la maschera d'ossigeno. In ambulanza, prima di perdere conoscenza, cercò di gridare che tutte quelle cure non servivano a nulla e che avrebbero fatto meglio a offrirle un po’ di carne cruda. Un'infermiera si accorse che cercava di dire qualcosa, così le tolse la maschera e le si avvicinò per ascoltarla meglio. Ci rimediò un morso che le tranciò di netto il lobo dell’orecchio destro, perciò non pianse quando l’ex dottoressa Irina Sastri fu dichiarata clinicamente morta.

Gli evoluzionisti, programmati come un ordigno letale e perfetto, più o meno simultaneamente avevano colpito politici, tiranni, potenti industriali, magnati del petrolio, maghi della finanza, star del cinema e della canzone e i geni delle nuove tecnologie, tutte persone che si cercò di salvare a ogni costo. Si ricorse anche a metodi non convenzionali quali l’utilizzo del β3Z, una versione potenziata del Rigenera, il cui studio si trovava ancora alle prime fasi sperimentali. Ai media non fu detto che i ricchi pazienti, nonostante si trovassero in uno stato di coma indotto, erano stati legati al letto e forniti di una sorta di museruola perché a volte si risvegliavano e aggredivano medici e infermieri. Intanto sui siti internet che di solito parlavano di cerchi sul grano, Yeti e Atlantide apparve la notizia che, intorno a costose cliniche, erano stati avvistati uomini e donne vestiti con un camice ospedaliero che si muovevano lentamente e azzannavano i passanti. Qualcuno in un blog scrisse che un amico gli aveva raccontato che la fidanzata di un suo cugino aveva visto la dottoressa Sastri aggredire un ragazzo, ma questo era impossibile: la prima donna ad aver provato il Rigenera era infatti morta qualche settimana prima in un attentato, lo sapevano tutti. Nessuno poteva immaginare che il funerale di Irina si era svolto intorno a una bara vuota perché la clinica privata in cui era arrivata l’ambulanza che la trasportava non aveva voluto ammettere di essersi persa un cadavere.

All’inizio le polizie di tutto il mondo decisero di negare gli episodi di aggressione, perciò si pensò che si stesse diffondendo una nuova leggenda metropolitana, quella del Paziente Morsicatore. Insomma, una cosa su cui riderci sopra, almeno finché le persone aggredite cominciarono a essere troppe per poter credere che si fossero inventate tutto. Si sparse poi la voce che, quelle di loro che erano state azzannate alla gola, erano morte o si erano messe a loro volta ad aggredire i familiari. «O entrambe le cose, come mi appresto ad appurare», tentò di scherzarci su Alberto Manni, scettico giornalista che si offrì di cercare qualche vittima di un Paziente Morsicatore e intervistarlo. Anzi, visto che abitava a Roma, avrebbe parlato proprio con Irina Sastri, affamata dottoressa che in molti su internet sostenevano di vedere mentre aggrediva qualche amico o un parente, nonostante il suo corpo fosse stato cremato insieme alla bara dopo lo sfarzoso funerale. La scomparsa di Manni fu considerata una trovata pubblicitaria; quelle dei suoi colleghi, che anche in altre città provarono a emularlo, fu invece attribuita a un primo originale serial killer e ai suoi imitatori. Furono gli evoluzionisti, nelle pagine che ciclicamente riaprivano su facebook, a sostenere che i primi Pazienti Morsicatori erano proprio le vittime dei loro attentati, ovvero coloro che avevano usato il Rigenera perché non volevano invecchiare e nemmeno morire. Il primo loro desiderio era stato esaudito, mentre per il secondo neanche i terroristi ebbero il coraggio di parlare di Zombie. Ben presto non ci fu più tempo per parlarne: bisognava solo correre e combattere. Infine il nulla, solo margherite schiacciate da una massa affamata in eterno movimento.

28 Giorni Dopo: London Calling, di Michael A. Nelson, Declan Shalvey e Nick Filardi (Comma 22)


“BE THANKFUL FOR EVERYTHING FOR SOON THERE WILL BE NOTHING”

Si sa che di fronte a prodotti editoriali che seguono la scia di franchise di successo, il rischio è sempre che, al di fuori del nome, esista poco della qualità del prodotto originale cui quel successo è dovuto.
Il franchise in questione è 28 Giorni Dopo, nato dallo splendido film diretto dal regista Danny Boyle (Trainspotting, Sunshine, Slumdog Millionaire; non vorrei ma devo menzionare anche The Beach) e scritto da Alex Garland, a cui è seguito il non troppo esaltante 28 Settimane Dopo, girato da Juan Carlos Fresnadillo.
Sgombro subito il campo da qualsiasi dubbio: non siamo davanti ad alcun atto di “lesa maestà” nei confronti dell’opera di Boyle. La qualità c’è.

Scritta da Nelson, disegnata da Shalvey e colorata da Filardi, la storia del fumetto si colloca nello spazio temporale tra i due film. Selena, una dei tre sopravvissuti di “Casa Worsley”, viene assoldata come guida dal giornalista americano Clint Harris. Destinazione: Londra, oltre i limiti della quarantena verso il cuore dell’infezione, per scoprire la causa del contagio. Comincia così un viaggio dove il pericolo non sarà rappresentato soltanto dagli infetti d’Inghilterra, velocisti e affamati come chi ha visto i film ben sa.
In conformità alla pubblicazione americana, London Calling dovrebbe essere il primo dei sei volumi che compongono le vicende di Selena.

Le premesse, per chi non fosse fan dei film, non appaiono come le più originali: una donna con un passato tragico e il senso di colpa della sopravvissuta guida un gruppo di ingenui nell’ultimo posto sulla Terra in cui bisognerebbe andare, con un conseguente gioco al massacro. Ma la verità è che, proprio quando ci si aspetta che la storia abbia preso dei binari arcinoti, Nelson sa piazzare dei colpi di scena in grado di ribaltare la situazione, e il bisogno di sapere come i protagonisti usciranno da un guaio peggiore dell’altro fa crescere l’attesa nei confronti del volume successivo.
Non ci troviamo di fronte a particolari stravolgimenti dei canoni del genere, ma l’autore dimostra di saper dare alla narrazione il giusto ritmo, senza alcun calo di tensione. Forse, una pecca che i fan del primo film potrebbero trovare sta nella scelta, almeno in questo primo volume, di privilegiare l’azione rinunciando alla contemplazione di quei grandi scenari abbandonati e silenziosi che erano la cifra stilistica dell’opera di Boyle (o almeno della prima metà).
Se i disegni di Shalvey fanno il loro ottimo lavoro, sono i colori freddi della tavolozza di Filardi, accesi solo dagli occhi iniettati di sangue degli infetti, a dominare le tavole. La luce livida e le tonalità spente ci ricordano a ogni passo (o vignetta) che l’Apocalisse è già avvenuta.
Una menzione speciale per la qualità va alle stupende copertine di Tim Bradstreet, in grado di rappresentare iconograficamente una perfetta Apocalisse in salsa punk anni ’70, ottimo richiamo al London Calling del titolo.

28 Giorni Dopo: London Calling non sconvolgerà il vostro universo, ma vi darà il grande piacere, con stile e giusta dose di tensione, di tornare nel Regno Unito, in mezzo agli infetti creati da Danny Boyle e Alex Garland.

(Marco Battaglia)



martedì 25 ottobre 2011

The Walking Dead: lo zombie sbarca in Tv


Dal lontano 1968, quando l’allora ventottenne regista italo-americano George A. Romero sconvolse il pubblico con La notte dei morti viventi (Night of the living dead), rileggendo in chiave apocalittica la tradizione voodoo degli zombie, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Lo stesso Romero di film "zombeschi" ne ha girati nel frattempo altri cinque (con alterne fortune), altri registi hanno tentato la sorte gettandosi semplicemente nella mischia, alcuni hanno cercato un’innovazione che non sempre è andata a buon fine, quelli meno creativi hanno rischiato la strada del remake. Nessuno, però, fino al 2010, aveva provato a portare lo zombie in tv. Fino ad allora sembrava un personaggio destinato alle nicchie di appassionati e relegato (come avvenuto per La notte dei morti viventi) in qualche cinema di serie B, come se portarlo dentro le case degli spettatori potesse rappresentare un atto dissacrante. A traghettarlo nella nuova epoca, dove sempre di più il mezzo televisivo tende a soverchiare quello cinematografico, ci ha pensato Frank Darabont, regista di capolavori come Le ali della libertà e Il miglio verde e profondo conoscitore del mondo romeriano.
Con l’operazione The Walking Dead, ispirato alla serie a fumetti creata da Robert Kirkman pubblicata per la prima volta nel 2003, Darabont ha riportato in auge personaggi e storie che negli ultimi anni sembravano essere stati vittima di una sorta di oscurantismo che aveva trasformato gli zombie in mostri assetati di carne e sangue. Fin dalla costruzione del primo episodio della season one, I giorni andati, il regista ha dimostrato come il suo obiettivo fosse quello di rimanere ancorato alla tradizione classica, concentrandosi principalmente nel trasmettere il nulla, il silenzio e la desolazione di un mondo ormai distrutto. Esemplare sotto questo punto di vista è la scena iniziale del primo episodio, in cui il vicesceriffo Rick Grimes (Andrew Lincoln) si risveglia in un ospedale abbandonato dove le uniche voci sono i lamenti dei morti che vorrebbero uscire dall’obitorio sprangato, per poi effettuare una ricognizione tra strade deserte, cadaveri avvolti nei lenzuoli, detriti e ammassi contorti di lamiere, case vuote e abbandonate di corsa.
Darabont si muove in punta di piedi in un territorio quasi sacro, raccontando la sua storia lentamente, prendendo le distanze dai recenti action-movie alla Resident Evil o The Horde, per concentrarsi invece sui personaggi, veri protagonisti della serie. Rinnovando l’ideologia romeriana, il regista di origini ungheresi fa degli zombie lo specchio della disgregazione sociale, utilizzandoli come motivo scatenante dei conflitti tra gli esseri umani. Pur nella loro feroce fisicità (sfondano vetrine e abbattono cancelli) i mostri di Darabont rimangono degli strumenti per analizzare la psiche umana e la sua reazione a una situazione al limite come quella in cui si trovano i sopravvissuti. Emblematica in tal senso una scena del secondo episodio della prima stagione, Una via d’uscita, in cui si scatena una rissa sul tetto dell’edificio (un grande magazzino come in Zombie di Romero!) dove sono assediati i sopravvissuti, per decidere “chi comanda”. Darabont sembra volerci dire che l’uomo non è cambiato: egoismo, rabbia, frustrazione e voglia di rivalsa sono rimasti tali e in quella determinata situazione diventano armi più pericolose degli stessi zombie.
Come nella più classica trasposizione cinematografica (basti ricordare la fine che fa, al termine del film, il protagonista di La notte dei morti viventi), in The Walking Dead non ci sono pertanto eroi, ma soltanto uomini e donne in cerca di una nuova casa e desiderosi di ristabilire l’equilibrio perso con il ritorno in terra dei morti. Eppure, personaggi come lo stesso Rick sarebbero perfetti per ricoprire il ruolo del salvatore della patria, ma non è questo che interessa a Darabont e soci, quanto piuttosto il mettere in rilievo la meschinità e la piccolezza dell’uomo che perfino in situazione così al limite non smette di sorprendere per la sua infinita stupidità. Lo stesso Rick è in fondo il classico padre di famiglia col senso di colpa, per cui l’apocalisse rappresenta la possibilità per rinsaldare i legami familiari, ma sempre più schiacciato dal peso della responsabilità di essere il leader dei sopravvissuti (elemento acuito fin dalla prima puntata della seconda stagione appena arrivata in Italia); Shane Walsh (Jon Bernthal) è l’uomo ferito nel proprio orgoglio maschile che, persa ogni speranza di diventare il punto di riferimento del gruppo dopo l’arrivo di Rick, all’inizio della seconda stagione decide di voler abbandonare i suoi compagni di viaggio; Andrea (Laurie Holden) è invece la donna arrabbiata col mondo che, dopo la tragica morte della sorella, cerca soltanto una veloce via d’uscita da quell’inferno o qualcuno a cui dare la colpa di tutto; Dale (Jeffrey DeMunn), infine, è il presunto “saggio” della compagnia, colui che dovrebbe dispensare consigli e fare un po’ da guida spirituale del gruppo, ma alla fine si rivela più un vecchio alla ricerca di una persona di cui prendersi cura (la trova in Andrea, salvo poi ricevere da lei un arrabbiato invito a “farsi i cazzi suoi”), probabilmente a causa anche qui di sensi di colpa che si trascina dalla precedente vita. Saranno forse anche degli stereotipi, ma sta di fatto che i personaggi di The Walking Dead sono quanto di più normale e terreno possa esistere, schiavi delle proprie debolezze e della visione microscopica che hanno del mondo che li circonda. Gli zombie darabontiani (esteticamente magnifici) fanno solo da contorno a tutto questo, ogni tanto addirittura da semplici comparse.
Sia la prima stagione che l’inizio della seconda sono caratterizzate da poca azione (per lo più concentrata all’inizio degli episodi), ma da una spessa introspezione: tutte le puntate cominciano in modo lento e con molti dialoghi, al fine di farci interagire con i personaggi, creando quell’empatia che permette alle vicende narrate di entrare nelle nostre case e di amplificare il messaggio di condanna che sta alla base della serie tv. Come per Romero, anche per Darabont l’apocalisse zombesca è infatti una conseguenza naturale della scelleratezza umana, dell’egoismo dell’uomo e della sua violenza. Gli zombie darabontiani rappresentano quindi il castigo divino, lo tsunami che cancellerà tutto il male procurato dall’uomo, nella speranza di un anno zero da cui ripartire. 
Il fenomeno The Walking Dead ha trovato terreno fertile anche su internet dove è reperibile un’interessantissima web serie diretta da Greg Nicotero (l’autore dello splendido make-up zombesco della serie tv), in cui si racconta la storia di “torso”, il primo zombie che Rick Grimes incontra una volta uscito dall’ospedale. Un esperimento notevole, girato molto bene, e più sanguinolento rispetto alla versione televisiva.

(Marcello Gagliani Caputo)

Tutto inizia dalla fine: intervista ad Andrea G. Ciccarelli, direttore editoriale di saldaPress



Se i lettori italiani hanno svariati motivi per essere grati a saldaPress, i lettori italiani di horror ne hanno di enormi. Dal 2005, infatti, saldaPress ha il merito di portare in Italia, in un’ottima veste grafica e volumi ben curati, una delle serie a fumetti di maggior successo degli ultimi dieci anni: The Walking Dead, epopea zombie frutto del genio di Robert Kirkman e della matita di Tony Moore (presto sostituito da Charlie Adlard), da cui è stata tratta la serie TV campione di ascolti.
Come se non bastasse, dal 2009 saldaPress decide di inaugurare una apposita collana a fumetti dedicata agli zombie, dal nome tanto semplice quanto efficace: “Z”. Vedono così la luce per il mercato italiano opere come Fragile, di Stefano Raffaele; Raise the Dead, scritto da Leah Moore (figlia di Alan) e dal di lei consorte John Reppion, per i disegni di Hugo Petrus; Gli Zombie che Divorarono il Mondo, di Jerry Frissen e Guy Davis.
Inoltre, il blog http://zetacomezombie.blogspot.com/, gestito da saldaPress, costituisce sempre una fonte interessante di notizie e curiosità a tema.
Dal momento che The Walking Dead (serie TV) sta per tornare in onda con la seconda stagione, il decimo volume del fumetto sta per uscire e a noi gli zombie piacciono tanto, abbiamo avuto l’occasione di fare qualche domanda ad Andrea G. Ciccarelli, direttore editoriale di saldaPress, a proposito di “Z”, di horror a fumetti, di TWD e, ovviamente, di zombie.

Per quanto il termine sia spiacevole, si parla ormai da mesi di “fenomeno zombie”, è sotto gli occhi di tutti. Eppure, voi pubblicate The Walking Dead già dal 2005 e nel 2009 avete inaugurato ufficialmente la collana “Z”, con Fragile. Siete stati voi a essere più bravi degli altri, o sono stati gli altri a essere più lenti?

Mi è già capitato di rispondere a domande simili a questa e più o meno la mia risposta è sempre che nella vita è questione di una giusta misura di naso e cu… fortuna. Nel caso di TWD si è trattato proprio di questo: naso nell'intuire la bellezza della serie scritta da Robert Kirkman (e gli sviluppi che avrebbero potuto avere le vicende di Rick & co.) e cu… fortuna nel pubblicarla in Italia prima che diventasse la hit di vendita che è oggi. Certo, a questo va aggiunto anche un lavoro di diversi anni sulla collana "Z" che, per come la vedo io, è quello che fa la differenza nel lavoro di un editore. Credo che le piccole case editrici siano le più adatte a fare questo lavoro di scoperta dei nuovi temi e tendenze proprio perché, a differenza delle grandi, il legame tra la curiosità personale dell'editore e i libri che la sua casa editrice pubblica è più diretto. Peccato che in Italia le grandi case editrici facciano di tutto per rendere difficile questo lavoro alle piccole, non capendo l'importanza per tutti di un ecosistema editoriale dove case editrici piccole e grandi convivono.

Ci può raccontare come avete scoperto e deciso di pubblicare The Walking Dead? All’epoca, vi aspettavate che il fumetto avrebbe avuto un tale successo planetario?

Ci è stato proposto da Image Comics di diventare l'editore italiano di TWD. Credo che al tempo negli USA fosse uscito solo il primo volume (forse anche qualche albo del secondo perché mi ricordo i dubbi sul cambio di disegnatore. Dubbi che, con il senno di poi, anche se comprensibili, – il cambio di stile era netto – non avevano motivo di essere: Tony Moore è bravissimo ma Charlie Adlard è perfetto per TWD). L'ho letto e mi sono innamorato del ritmo narrativo che Kirkman aveva dato alla storia, della sua capacità di restare fedele al canone Romeriano sfruttando la potenzialità propria del fumetto seriale di creare una storia zombie che continua. Così, molto semplicemente, abbiamo fatto la nostra proposta per l'edizione italiana e Image Comics l'ha accettata. Confesso che all'inizio i numeri non erano confortanti: nei primi mesi TWD vendeva pochissimo ed eravamo tutti abbastanza giù per questa cosa (una piccola casa editrice com'è la nostra si può permettere solo una manciata di titoli in passivo senza andare a gambe all'aria). Poi, pian piano, credo soprattutto grazie al passaparola tra i lettori, le copie vendute sono aumentate e, da lì, hanno continuato ad aumentare in maniera costante arrivando a costruire il successo di vendita che è oggi, E, incrociando le dita, grazie anche alla serie tv, sembra che la tendenza sia ancora quella.

“Z” offre opportunità per tutti i gusti, dalla grande epopea horror di The Walking Dead, ai sentimenti di Fragile, passando per la satira de Gli Zombie che divorarono il mondo. Può rivelarci cos’altro avete in serbo per noi?

Continuiamo a guardarci intorno alla ricerca di nuovi titoli interessanti da proporre ai nostri lettori all'interno della collana "Z". A San Diego, quest'anno, abbiamo preso accordi per pubblicare un paio di serie USA che sono sicuro piaceranno molto al pubblico italiano. Ma stiamo tenendo d'occhio anche il panorama francese dove, nel cinema come nel fumetto, si stanno facendo avanti molti titoli interessanti a tema zombie. Per adesso posso solo confermare che a inizio 2012 pubblicheremo il secondo capitolo di Raise the Dead (a parte TWD, il titolo più amato dai lettori italiani all'interno della nostra proposta zombie) e, direttamente dalla Spagna dove è ormai un hit di vendita, la parodia di TWD (la serie a fumetti e quella tv) che noi abbiamo deciso di ribattezzare The Walking MAD!. In più, per ampliare l'offerta legata a TWD, abbiamo acquistato i diritti per pubblicare in Italia The Walking Dead Chronicles il bel lavoro del giornalista e scrittore Paul Ruditis che, attraverso interviste al cast, foto, disegni e molto altro ancora, racconta la genesi della serie tv, analizzando in profondità i singoli episodi e mettendoli a confronto con la serie a fumetti.

Secondo lei, che significato ha la figura dello zombie e relativa apocalisse negli anni ’10? Cosa hanno da dirci oggi i non morti?

Posso dire che mi ha molto colpito un libro che si intitola "Il contagio" e che, invece  di zombie et similia, parla della crisi economica nel mezzo della quale ci troviamo e di come questa rivoluzionerà la nostra idea di democrazia (l'ha scritto l'esperta di economia Loretta Napoleoni). Gli zombie oggi sfilano a Wall Street per protestare contro gli speculatori della borsa che si nutrono del lavoro della gente, esiste il concetto di "zombie bank" (banche che operano nonostante siano già fallite, prendendo soldi dal Governo senza fare prestiti) e, più in generale, la zombie walk è una delle tipologie di flash mob più diffuse. Insomma, la figura dello zombie oggi è più attuale che mai e se ci fa ancora paura, ce ne fa per gli stessi motivi profondi e concreti intuiti a suo tempo da George Romero. Lo zombie porta con sé l'immagine di una forza immensa e inarrestabile che, con una logica per noi incomprensibile, rade al suolo un intero sistema sociale, lo abbatte puntando diritto alle sue fondamenta. È una paura profonda dell'essere umano che, però, come tutte le paure, racchiude al suo interno un desiderio altrettanto profondo: quello della rinascita.

Una domanda diventata di rito fin dall’uscita del film 28 Giorni Dopo, se non prima. Meglio zombie veloci o zombie lenti?

Se la domanda riguarda un parere personale, sono un tradizionalista e quindi rispondo "zombie lenti". Ma mi sembra coerente anche la spiegazione che hanno dato i produttori della serie tv di TWD: la velocità dipende da come è messo lo zombie in questione.

Sembra che il fumetto horror americano se la cavi sempre bene. Hellblazer è immortale, case editrici come Dark Horse, IDW e Image continuano a fornirci autori come Mignola, Niles, Layman, oltre ovviamente a Kirkman, solo per fare qualche esempio. Del fumetto horror italiano cosa mi dice?

Non ne conosco molti (a parte Dylan Dog che, di tanto in tanto, qualche buona storia  horror ce la propone, soprattutto quando la sceneggiatura la firma Paola Barbato) ma posso dire che, prima o poi, mi piacerebbe produrne uno proprio per la collana “Z”. Detto questo mi accorgo di aver detto una mezza fesseria perché invece di ottimi fumetti italiani horror ne conosco eccome: Gianluca Morozzi (con Giuseppe Camuncoli e Michele Petrucci) ha sceneggiato degli ottimi fumetti horror (Il vangelo del coyote e FactorY). Sotto un cielo cattivo di Matteo Casali e Grazia Lobaccaro è una bellissima epopea horror e, pur lavorando ai margini dell'horror strettamente inteso, anche Alessandro Bilotta con il suo psicanalista dei fantasmi Valter Buio ha proposto al pubblico italiano una bellissima serie a fumetti orrorifica. Forse l'industria fumettistica statunitense è solo più brava della nostra a capitalizzare le potenzialità dell'horror e a portarle a sistema. Su questo forse occorrerebbe una seria riflessione.

Mi rendo conto non essere di sua stretta competenza, ma sono sicuro che anche lei segue le vicende attorno la serie TV di The Walking Dead. Un’opinione sulla serie e su quello che sarà il suo futuro? Ovviamente mi riferisco implicitamente al licenziamento di Frank Darabont.

Credo che Frank Darabont sia un pilastro dell'adattamento tv di The Walking Dead. Il suo lavoro all'interno della prima stagione della serie non solo come produttore (showrunner, mi pare si dica in gergo) ma anche come sceneggiatore e regista è stato di vitale importanza per decretare il successo di critica e di pubblico raggiunto dalla serie prodotta da AMC.  E quindi, come spettatore,  ho preso male la notizia del suo allontanamento dalla serie anche se, dalle notizie più recenti, sembra che, pur cedendo l'incarico di showrunner al bravo Glenn Mazzara (non certo l'ultimo arrivato e comunque già coinvolto come scrittore nella prima stagione), Darabont resterà tra i produttori della seconda stagione. In generale mi sembra che il lavoro fatto per la prima stagione di TWD sia stato ottimo: due punte di assoluta eccellenza (il pilota e l'episodio Wildfire) e le altre 4 puntate che hanno soprattutto permesso ai produttori di sondare diversi registri narrativi da mettere poi a punto con la seconda stagione. Ora, con 13 puntate a disposizione, AMC dovrà concretizzare tutte quelle potenzialità che le 6 puntate della prima stagione hanno lasciato intuire. Sono convinto che l'idea di sviluppare una sorta di universo parallelo simile ma non esattamente uguale a quello della serie a fumetti sia stata una scelta vincente e, da quel poco che si è visto finora, credo proprio che la seconda sarà una grande stagione.

Grazie ad Andrea G. Ciccarelli e a saldaPress per la disponibilità.

(Marco Battaglia)



lunedì 24 ottobre 2011

La lunga marcia del morto vivente nella letteratura


«Sono qui per restare». Così nel 2009 una portavoce della St. Martin Press davanti ai tanti libri che già allora inondavano il mercato USA facendo dello zombie il pretendente al trono dell’aristocratico vampiro. «Missione compiuta» possiamo dire oggi noi, davanti a un nuovo ”caso” culturale, meglio senza ingolfarsi nel logoro dibattito: operazione di marketing o figura, quella del morto vivente, che sa parlare alla nostra contorta psiche di figli del XXI secolo?
Una cosa è certa: queste creature vengono da lontano. Anche se sarà La notte dei morti viventi di George Romero (1968) a codificarne l’immagine, l’idea di esseri non morti affamati di carne umana si trova già in opere come l’Epopea di Gilgamesh, qualcosa come 4500 anni fa. O nelle Mille e una notte, con i suoi ghoul, e nelle cronache medievali dell’XI secolo.
All’inizio il morto vivente è solo una variante del Revenant, creatura che torna dalla morte per vendicarsi, e si confonde spesso e volentieri con il vampiro. E il mostro in cerca di vendetta è un tema forte nel Frankenstein di Mary Shelley (1818), non una storia di zombie ma seminale per l’idea del morto rianimato come creatura violenta e degenerata. Lungo il XIX secolo, il tema sarà frequentato anche da Edgar Allan Poe con il suo Testimonianza sul caso del signor Valdemar (1845). La storia dell’uomo che muore dopo essere stato ipnotizzato, e il cui corpo rimane in stato d’ipnosi, sospeso in una morte–non morte eterna, fissa per la prima volta il paradosso di ogni storia di zombie. Con il morto ritornante giocherà anche Ambrose Bierce con La morte di Halpin Frayser (1893), uno dei tanti racconti di questo maestro del brivido da sempre abbastanza sconosciuto al lettore italiano.
Di certo non sconosciuto a H.P. Lovecraft, che non mancherà mai di fare omaggio a Bierce. In effetti, Il Solitario di Providence esplorerà più volte temi simili: Pensiamo alle disavventure del becchino George Birch di Nella cripta (1925) o ad Aria fredda (1926), incubo newyorkese di disintegrazione corporea, senza dimenticare poi il famigerato Herbert West Rianimatore (1922), da cui Stuart Gordon trarrà il celebre Reanimator del 1985. La storia del dottor West, brillante, narcisista e amorale scienziato alla ricerca di un siero per resuscitare i morti, sembra quasi una parodia di Frankenstein con le sue scene esageratamente violente, sanguinarie, piene di cliché e quasi comiche. Considerato da tutti la peggior cosa mai scritta da Lovecraft, Herbert West ha però il merito di aver dato un contributo fondamentale a definire il morto vivente nella cultura moderna, nei suoi istinti e comportamenti. Forse molto più dell’Isola magica dell’occultista William Seabrook (1929), con i suoi racconti sensazionalisti sulle pratiche voodo di Haiti che segnano l’ingresso della parola “zombie” nel linguaggio corrente, e il suo (con)fondersi con il tradizionale Revenant.
Sotto questo aspetto, Io sono leggenda di Richard Matheson (1954) è un libro tradizionalista e al tempo stesso rivoluzionario. È tradizionalista perché i mostri non morti di Matheson hanno un’identità ambigua, ancora a metà tra il vampiro e lo zombie. È rivoluzionario perché l’idea del vampirismo come malattia avrà poi sviluppi nelle successive storie di zombie, così come la Los Angeles che porta le ferite dell’epidemia è il seme da cui nasceranno tutte le successive Apocalissi zombie. E ancora: i temi della fame animale e del decadimento, l’esplorazione degli usi sociali, il conflitto tra religione e scienza, la ridicola e grottesca goffaggine dei mostri assetati di sangue. Sono tutti elementi che Romero saprà riprendere e usare con profitto nel suo film. Il resto, come si dice, è storia, anche se gli zombie esploderanno come genere solo nel 1989, con l’antologia Book of the Dead. Dopo, diventa difficile citare tutti gli scrittori che hanno fatto incursioni nel genere, senza fare noiosi cataloghi: a esempio, Brian King con The Rising (2005), Stephen King con Cell, (2006), Max Brooks con World War Z (2006) e Jonathan Maberry (Rot & Ruin, 2011). Neanche i classici della letteratura sembrano al sicuro, come nel caso di Orgoglio e pregiudizio e zombie di Seth Grahame–Smith (2009), e di Valley of the Dead di Kim Paffenroth (2010), in cui è di scena addirittura Dante Alighieri.
Non ci son dubbi: queste orde affamate si sono conquistate al loro passo lento, durato secoli, un posto sotto il sole dell’immaginario. Ci sono riuscite violando il confine tra vita e morte, infrangendo tabu sociali e stemperando l’infrazione con una fisicità grottesca e assurda. Un modo per noi di affrontare l’idea della morte e di esorcizzarla ridendo, a pensarci su. E forse la ragione per cui «sono qui per restare».

(Francesco G. Lo Polito)
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...