Dal lontano 1968,
quando l’allora ventottenne regista italo-americano George A. Romero sconvolse
il pubblico con La notte dei morti
viventi (Night of the living dead),
rileggendo in chiave apocalittica la tradizione voodoo degli zombie, di acqua
sotto i ponti ne è passata parecchia. Lo stesso Romero di film "zombeschi" ne ha
girati nel frattempo altri cinque (con alterne fortune), altri registi hanno
tentato la sorte gettandosi semplicemente nella mischia, alcuni hanno cercato
un’innovazione che non sempre è andata a buon fine, quelli meno creativi hanno
rischiato la strada del remake. Nessuno, però, fino al 2010, aveva provato a portare
lo zombie in tv. Fino ad allora sembrava un personaggio destinato alle nicchie
di appassionati e relegato (come avvenuto per La notte dei morti viventi) in qualche cinema di serie B, come se
portarlo dentro le case degli spettatori potesse rappresentare un atto
dissacrante. A traghettarlo nella nuova epoca, dove sempre di più il mezzo televisivo
tende a soverchiare quello cinematografico, ci ha pensato Frank Darabont, regista
di capolavori come Le ali della libertà e Il miglio verde e profondo
conoscitore del mondo romeriano.
Con l’operazione The Walking Dead, ispirato alla serie a
fumetti creata da Robert Kirkman pubblicata per la prima volta nel 2003, Darabont
ha riportato in auge personaggi e storie che negli ultimi anni sembravano
essere stati vittima di una sorta di oscurantismo che aveva trasformato gli
zombie in mostri assetati di carne e sangue. Fin dalla costruzione del
primo episodio della season one, I giorni andati, il regista ha dimostrato come il suo obiettivo fosse quello di rimanere ancorato alla
tradizione classica, concentrandosi principalmente nel trasmettere il nulla, il
silenzio e la desolazione di un mondo ormai distrutto. Esemplare sotto questo
punto di vista è la scena iniziale del primo episodio, in cui il vicesceriffo
Rick Grimes (Andrew Lincoln) si risveglia in un ospedale abbandonato dove le
uniche voci sono i lamenti dei morti che vorrebbero uscire dall’obitorio sprangato,
per poi effettuare una ricognizione tra strade deserte, cadaveri avvolti nei
lenzuoli, detriti e ammassi contorti di lamiere, case vuote e abbandonate di
corsa.
Darabont si muove in
punta di piedi in un territorio quasi sacro, raccontando la sua storia lentamente,
prendendo le distanze dai recenti action-movie
alla Resident Evil o The Horde, per concentrarsi invece sui personaggi, veri
protagonisti della serie. Rinnovando l’ideologia romeriana, il regista di origini
ungheresi fa degli zombie lo specchio della disgregazione sociale,
utilizzandoli come motivo scatenante dei
conflitti tra gli esseri umani. Pur nella loro feroce fisicità (sfondano
vetrine e abbattono cancelli) i mostri di Darabont rimangono degli strumenti
per analizzare la psiche umana e la sua reazione a una situazione al limite
come quella in cui si trovano i sopravvissuti. Emblematica in tal senso una
scena del secondo episodio della prima stagione, Una via d’uscita, in cui si scatena una rissa sul tetto
dell’edificio (un grande magazzino come in Zombie
di Romero!) dove sono assediati i sopravvissuti, per decidere “chi comanda”. Darabont
sembra volerci dire che l’uomo non è cambiato: egoismo, rabbia, frustrazione e
voglia di rivalsa sono rimasti tali e in quella determinata situazione
diventano armi più pericolose degli stessi zombie.
Come nella più
classica trasposizione cinematografica (basti ricordare la fine che fa, al
termine del film, il protagonista di La
notte dei morti viventi), in The Walking Dead
non ci sono pertanto eroi, ma soltanto uomini e
donne in cerca di una nuova casa e desiderosi di ristabilire l’equilibrio perso
con il ritorno in terra dei morti. Eppure, personaggi come lo stesso Rick
sarebbero perfetti per ricoprire il ruolo del salvatore della patria, ma non è
questo che interessa a Darabont e soci, quanto piuttosto il mettere in rilievo
la meschinità e la piccolezza dell’uomo che perfino in situazione così al
limite non smette di sorprendere per la sua infinita stupidità. Lo stesso Rick
è in fondo il classico padre di famiglia col senso di colpa, per cui
l’apocalisse rappresenta la possibilità per rinsaldare i legami familiari, ma
sempre più schiacciato dal peso della responsabilità di essere il leader dei sopravvissuti
(elemento acuito fin dalla prima puntata della seconda stagione appena arrivata
in Italia); Shane Walsh (Jon Bernthal) è l’uomo ferito nel proprio orgoglio
maschile che, persa ogni speranza di diventare il punto di riferimento del
gruppo dopo l’arrivo di Rick, all’inizio della seconda stagione decide di voler
abbandonare i suoi compagni di viaggio; Andrea (Laurie Holden) è invece la
donna arrabbiata col mondo che, dopo la tragica morte della sorella, cerca
soltanto una veloce via d’uscita da quell’inferno o qualcuno a cui dare la
colpa di tutto; Dale (Jeffrey DeMunn), infine, è il presunto “saggio” della
compagnia, colui che dovrebbe dispensare consigli e fare un po’ da guida
spirituale del gruppo, ma alla fine si rivela più un vecchio alla ricerca di
una persona di cui prendersi cura (la trova in Andrea, salvo poi ricevere da
lei un arrabbiato invito a “farsi i cazzi suoi”), probabilmente a causa anche
qui di sensi di colpa che si trascina dalla precedente vita. Saranno forse
anche degli stereotipi, ma sta di fatto che i personaggi di The Walking Dead sono quanto di più
normale e terreno possa esistere, schiavi delle proprie debolezze e della
visione microscopica che hanno del mondo che li circonda. Gli zombie darabontiani
(esteticamente magnifici) fanno solo da contorno a tutto questo, ogni tanto
addirittura da semplici comparse.
Sia la prima stagione
che l’inizio della seconda sono caratterizzate da poca azione (per lo più concentrata
all’inizio degli episodi), ma da una spessa introspezione: tutte le puntate cominciano
in modo lento e con molti dialoghi, al fine di farci interagire con i
personaggi, creando quell’empatia che permette alle vicende narrate di entrare
nelle nostre case e di amplificare il messaggio di condanna che sta alla base
della serie tv. Come per Romero, anche per Darabont l’apocalisse zombesca è infatti
una conseguenza naturale della scelleratezza umana, dell’egoismo dell’uomo e
della sua violenza. Gli zombie darabontiani rappresentano quindi il castigo
divino, lo tsunami che cancellerà tutto il male procurato dall’uomo, nella
speranza di un anno zero da cui ripartire.
Il fenomeno The Walking Dead ha trovato terreno
fertile anche su internet dove è reperibile un’interessantissima web serie
diretta da Greg Nicotero (l’autore dello splendido make-up zombesco della serie
tv), in cui si racconta la storia di “torso”, il primo zombie che Rick Grimes
incontra una volta uscito dall’ospedale. Un esperimento notevole, girato molto
bene, e più sanguinolento rispetto alla versione televisiva.
(Marcello Gagliani Caputo)
Nessun commento:
Posta un commento