lunedì 24 ottobre 2011

La lunga marcia del morto vivente nella letteratura


«Sono qui per restare». Così nel 2009 una portavoce della St. Martin Press davanti ai tanti libri che già allora inondavano il mercato USA facendo dello zombie il pretendente al trono dell’aristocratico vampiro. «Missione compiuta» possiamo dire oggi noi, davanti a un nuovo ”caso” culturale, meglio senza ingolfarsi nel logoro dibattito: operazione di marketing o figura, quella del morto vivente, che sa parlare alla nostra contorta psiche di figli del XXI secolo?
Una cosa è certa: queste creature vengono da lontano. Anche se sarà La notte dei morti viventi di George Romero (1968) a codificarne l’immagine, l’idea di esseri non morti affamati di carne umana si trova già in opere come l’Epopea di Gilgamesh, qualcosa come 4500 anni fa. O nelle Mille e una notte, con i suoi ghoul, e nelle cronache medievali dell’XI secolo.
All’inizio il morto vivente è solo una variante del Revenant, creatura che torna dalla morte per vendicarsi, e si confonde spesso e volentieri con il vampiro. E il mostro in cerca di vendetta è un tema forte nel Frankenstein di Mary Shelley (1818), non una storia di zombie ma seminale per l’idea del morto rianimato come creatura violenta e degenerata. Lungo il XIX secolo, il tema sarà frequentato anche da Edgar Allan Poe con il suo Testimonianza sul caso del signor Valdemar (1845). La storia dell’uomo che muore dopo essere stato ipnotizzato, e il cui corpo rimane in stato d’ipnosi, sospeso in una morte–non morte eterna, fissa per la prima volta il paradosso di ogni storia di zombie. Con il morto ritornante giocherà anche Ambrose Bierce con La morte di Halpin Frayser (1893), uno dei tanti racconti di questo maestro del brivido da sempre abbastanza sconosciuto al lettore italiano.
Di certo non sconosciuto a H.P. Lovecraft, che non mancherà mai di fare omaggio a Bierce. In effetti, Il Solitario di Providence esplorerà più volte temi simili: Pensiamo alle disavventure del becchino George Birch di Nella cripta (1925) o ad Aria fredda (1926), incubo newyorkese di disintegrazione corporea, senza dimenticare poi il famigerato Herbert West Rianimatore (1922), da cui Stuart Gordon trarrà il celebre Reanimator del 1985. La storia del dottor West, brillante, narcisista e amorale scienziato alla ricerca di un siero per resuscitare i morti, sembra quasi una parodia di Frankenstein con le sue scene esageratamente violente, sanguinarie, piene di cliché e quasi comiche. Considerato da tutti la peggior cosa mai scritta da Lovecraft, Herbert West ha però il merito di aver dato un contributo fondamentale a definire il morto vivente nella cultura moderna, nei suoi istinti e comportamenti. Forse molto più dell’Isola magica dell’occultista William Seabrook (1929), con i suoi racconti sensazionalisti sulle pratiche voodo di Haiti che segnano l’ingresso della parola “zombie” nel linguaggio corrente, e il suo (con)fondersi con il tradizionale Revenant.
Sotto questo aspetto, Io sono leggenda di Richard Matheson (1954) è un libro tradizionalista e al tempo stesso rivoluzionario. È tradizionalista perché i mostri non morti di Matheson hanno un’identità ambigua, ancora a metà tra il vampiro e lo zombie. È rivoluzionario perché l’idea del vampirismo come malattia avrà poi sviluppi nelle successive storie di zombie, così come la Los Angeles che porta le ferite dell’epidemia è il seme da cui nasceranno tutte le successive Apocalissi zombie. E ancora: i temi della fame animale e del decadimento, l’esplorazione degli usi sociali, il conflitto tra religione e scienza, la ridicola e grottesca goffaggine dei mostri assetati di sangue. Sono tutti elementi che Romero saprà riprendere e usare con profitto nel suo film. Il resto, come si dice, è storia, anche se gli zombie esploderanno come genere solo nel 1989, con l’antologia Book of the Dead. Dopo, diventa difficile citare tutti gli scrittori che hanno fatto incursioni nel genere, senza fare noiosi cataloghi: a esempio, Brian King con The Rising (2005), Stephen King con Cell, (2006), Max Brooks con World War Z (2006) e Jonathan Maberry (Rot & Ruin, 2011). Neanche i classici della letteratura sembrano al sicuro, come nel caso di Orgoglio e pregiudizio e zombie di Seth Grahame–Smith (2009), e di Valley of the Dead di Kim Paffenroth (2010), in cui è di scena addirittura Dante Alighieri.
Non ci son dubbi: queste orde affamate si sono conquistate al loro passo lento, durato secoli, un posto sotto il sole dell’immaginario. Ci sono riuscite violando il confine tra vita e morte, infrangendo tabu sociali e stemperando l’infrazione con una fisicità grottesca e assurda. Un modo per noi di affrontare l’idea della morte e di esorcizzarla ridendo, a pensarci su. E forse la ragione per cui «sono qui per restare».

(Francesco G. Lo Polito)

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