«Sono qui per restare». Così nel 2009 una portavoce della St.
Martin Press davanti ai tanti libri che già allora inondavano il
mercato USA facendo dello zombie il pretendente al trono
dell’aristocratico vampiro. «Missione compiuta» possiamo dire
oggi noi, davanti a un nuovo ”caso” culturale, meglio senza
ingolfarsi nel logoro dibattito: operazione di marketing o figura,
quella del morto vivente, che sa parlare alla nostra contorta psiche
di figli del XXI secolo?
Una cosa è certa: queste creature vengono da lontano. Anche se sarà
La notte dei morti viventi di George Romero (1968) a
codificarne l’immagine, l’idea di esseri non morti affamati di
carne umana si trova già in opere come l’Epopea di Gilgamesh,
qualcosa come 4500 anni fa. O nelle Mille e una notte, con i
suoi ghoul, e nelle cronache medievali dell’XI secolo.
All’inizio
il morto vivente è solo una variante del Revenant, creatura che
torna dalla morte per vendicarsi, e si confonde spesso e volentieri
con il vampiro. E il mostro in cerca di vendetta è un tema forte nel
Frankenstein di Mary Shelley (1818), non una storia di zombie
ma seminale per l’idea del morto rianimato come creatura violenta e
degenerata. Lungo il XIX secolo, il tema sarà frequentato anche da
Edgar Allan Poe con il suo Testimonianza sul caso del signor
Valdemar (1845). La storia dell’uomo che muore dopo essere
stato ipnotizzato, e il cui corpo rimane in stato d’ipnosi, sospeso
in una morte–non morte eterna, fissa per la prima volta il
paradosso di ogni storia di zombie. Con il morto ritornante giocherà
anche Ambrose Bierce con La morte di Halpin Frayser (1893),
uno dei tanti racconti di questo maestro del brivido da sempre
abbastanza sconosciuto al lettore italiano.
Di certo non sconosciuto a H.P. Lovecraft, che non mancherà mai di
fare omaggio a Bierce. In effetti, Il Solitario di Providence
esplorerà più volte temi simili: Pensiamo alle disavventure del
becchino George Birch di Nella cripta (1925) o ad Aria
fredda (1926), incubo newyorkese di disintegrazione corporea,
senza dimenticare poi il famigerato Herbert West Rianimatore
(1922), da cui Stuart Gordon trarrà il celebre Reanimator del
1985. La storia del dottor West, brillante, narcisista e amorale
scienziato alla ricerca di un siero per resuscitare i morti, sembra
quasi una parodia di Frankenstein con le sue scene
esageratamente violente, sanguinarie, piene di cliché e quasi
comiche. Considerato da tutti la peggior cosa mai scritta da
Lovecraft, Herbert West ha però il merito di aver dato un
contributo fondamentale a definire il morto vivente nella cultura
moderna, nei suoi istinti e comportamenti. Forse molto più
dell’Isola magica dell’occultista William Seabrook (1929),
con i suoi racconti sensazionalisti sulle pratiche voodo di Haiti che
segnano l’ingresso della parola “zombie” nel linguaggio
corrente, e il suo (con)fondersi con il tradizionale Revenant.
Sotto questo aspetto, Io sono leggenda di Richard
Matheson (1954) è un libro tradizionalista e al tempo stesso
rivoluzionario. È tradizionalista perché i mostri non morti di
Matheson hanno un’identità ambigua, ancora a metà tra il vampiro
e lo zombie. È rivoluzionario perché l’idea del vampirismo come
malattia avrà poi sviluppi nelle successive storie di zombie,
così come la Los Angeles che porta le ferite dell’epidemia è il
seme da cui nasceranno tutte le successive Apocalissi zombie. E
ancora: i temi della fame animale e del decadimento, l’esplorazione
degli usi sociali, il conflitto tra religione e scienza, la ridicola
e grottesca goffaggine dei mostri assetati di sangue. Sono tutti
elementi che Romero saprà riprendere e usare con profitto nel suo
film. Il resto, come si dice, è storia, anche se gli zombie
esploderanno come genere solo nel 1989, con l’antologia Book of
the Dead. Dopo, diventa difficile citare tutti gli scrittori che
hanno fatto incursioni nel genere, senza fare noiosi cataloghi: a
esempio, Brian King con The Rising (2005), Stephen King con
Cell, (2006), Max Brooks con World War Z (2006) e
Jonathan Maberry (Rot & Ruin, 2011). Neanche i classici
della letteratura sembrano al sicuro, come nel caso di Orgoglio e
pregiudizio e zombie di Seth Grahame–Smith (2009), e di Valley
of the Dead di Kim Paffenroth (2010), in cui è di scena
addirittura Dante Alighieri.
Non ci son dubbi: queste orde affamate si sono conquistate al loro
passo lento, durato secoli, un posto sotto il sole dell’immaginario.
Ci sono riuscite violando il confine tra vita e morte, infrangendo
tabu sociali e stemperando l’infrazione con una fisicità grottesca
e assurda. Un modo per noi di affrontare l’idea della morte e di
esorcizzarla ridendo, a pensarci su. E forse la ragione per cui «sono
qui per restare».
(Francesco G. Lo Polito)
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