lunedì 31 ottobre 2011
Cinema Cult: Day of the Dead (G. Romero)
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Cinema Cult: Zombi (G. Romero)
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Cinema Cult: Night of the living Dead (G. Romero)
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domenica 30 ottobre 2011
Maratona Tv Zombie: Thriller (Michael Jackson)
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Maratona Zombie Tv: Domenica da coma (J.Ax)
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sabato 29 ottobre 2011
Zombie Walk: a spasso con gli Zombie
Che camminano lo sappiamo, ce l’ha detto Darabont nella sua fortunata serie The Walking Dead (della quale abbiamo ampiamente parlato in questo articolo), ma trovarsi circondati da non morti che in massa attraversano le strade della nostra città potrebbe essere un’esperienza davvero singolare.
Eppure non è impossibile.
Le zombie walk, passeggiate zombie, sono ormai una realtà in tutti gli angoli del globo. Manifestazioni a metà strada tra la parata di carnevale e il corteo di protesta, nella quali tutti i presenti, o almeno quelli più di spirito, se ne vanno in giro conciati come i non-morti. Dagli abiti al trucco, chiunque può trasformarsi nel suo alter ego zombie.
Ma come è cominciato tutto questo e perché? E come è cambiato il fenomeno negli anni?
La prima zombie walk è stata fatta a Toronto nel 2003. Sei partecipanti, vestiti come i loro personaggi zombie preferiti, vagavano per le strade senza alcun intento particolare, solo per il divertimento proprio e di chi stava a guardarli. Senza fare una rassegna puntuale dell’evoluzione del fenomeno basta sapere che all’ultima zombie walk di Toronto, i partecipanti erano ben settemila.
In verità, già nel 2001 era stata organizzata una marcia zombie a Sacramento ma in quel caso l’idea non era nata dalla libera associazione delle persone, bensì per intenti pubblicitari: la zombie walk serviva a promuovere il festival annuale The Trash Film Orgy.
Perché allora si considera come primo esempio di Zombie walk quella di Toronto?
La risposta è semplice. Sono la libera partecipazione e la condivisione di un ideale a rappresentare il fulcro di queste manifestazioni che diventano espressione del “potere della massa”.
Diciamocelo chiaramente, uno zombie da solo non fa paura a nessuno, un fiume di non-morti invece sì.
Basta guardare al cinema per capire. Nessuno zombie assassino o serial killer ma sempre gruppi di mostri riuniti in orde fameliche. Insomma, la figura dello zombie rappresenta alla perfezione l’idea della fratellanza, dell’unione, della condivisione di obiettivi e ideali. In negativo, ovviamente, con connotati che affogano nel sangue e nel disfacimento, ma pur sempre pieni di significato.
È per questo motivo che le zombie walk, nel tempo, si sono evolute sempre più in tal senso, diventando un modo per protestare contro i mali sociali in una maniera un po’ originale, mostrando alla collettività la capacità della massa di darsi un ordine e un’identità.
Questo senso di aggregazione è dato anche dalle modalità organizzative comuni a molte delle manifestazioni senza distinzione di tempo, spazio e luogo.
Le “zombie call”, le chiamate, si diffondono attraverso internet, i blog, i social network, Sono rari i casi in cui l’organizzazione sia esplicita e presente con nomi e persone, il più delle volte anche i “leader” preferiscono rimanere anonimi proprio per sottolineare il grado di appartenenza a un’“orda indifferenziata”. In questo senso esiste un certo grado di affinità con i flash mob. Si fissano luogo, giorno e ora, solo che, invece di essere nudi o intentare una spietata lotta coi cuscini, qui ci si presenta zombificati.
Il fenomeno è talmente diffuso oltreoceano che gli italiani, da sempre grandi importatori di mode made in USA, non hanno tardato ad appropriarsene. E così, dopo Halloween e il trick or threat
ecco fiorire anche da noi l’usanza delle zombie walk.
Il primo esperimento in tal senso è stato fatto a Roma nel 2007, una partenza in sordina così come in sordina è stato il bis di Torino l’anno dopo. Bisogna aspettare un paio d’anni perchè le zombie walk italiane acquistino un loro peso. In questo, l’utilizzo dei mezzi di diffusione online ha giocato un ruolo importantissimo. È tramite facebook e i blog che il fenomeno si diffonde. Anche nel nostro Paese, infatti, il metodo delle “chiamate” sembra funzionare alla grande e dal 2010 in poi sono sempre di più le città che accolgono gruppi deambulanti di zombie a vagare per le loro strade.
La particolarità delle zombie walk italiane, da quelle più improvvisate a quelle che ormai hanno una struttura organizzata alle spalle e sono diventate un appuntamento annuale molto atteso, è la protesta aperta ed esplicita verso la condizione dei giovani. Quasi sempre il leit motiv della parata si basa su idee del genere “questa città è un mortorio”, pensiero che viene esplicitato nei materiali informativi e che ha avuto il suo culmine nella zombie walk di Reggio Emilia con il suo grosso richiamo di pubblico e l’elevata risonanza sui mezzi di comunicazione. Uno sguardo al sito www.reggiozombies.com, basta per rendersi conto di quello che sto dicendo. Già la testata mostra una bella lapide con su scritto "Città mortorio" e ovunque spicca l’accusa a una città che non fa nulla per i giovani.
Ci pensano allora i giovani stessi a fare qualcosa: protestano il loro disagio in maniera innovativa, prendendosi sul serio ma nemmeno troppo.
Non resta che tenere gli occhi aperti e le orecchie all’erta… la chiamata prima o poi arriva!
(Laura Platamone)
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Rot & Ruin, di Jonathan Maberry

Ma le differenze, a livello di soggetto, sono notevoli.
Tanto per cominciare, nella storia di Maberry non ci sono eroi votati all’azione o al “coattismo” spudorato. C’è un ragazzino, Benny Imura, che all’inizio è quanto di più fastidioso ci si possa ritrovare davanti, un piccolo arrogante capace solo di giudicare gli altri, ma incapace di farlo con obiettività. Tom, fratello di Benny e rinomato Cacciatore di zombie, ai suoi occhi non è altro che un vigliacco, che ha lasciato morire la madre senza muovere un dito per salvarla.I miti di Benny sono altri, quel Charlie occhio-di-vetro ad esempio, o il suo socio Motor city Hammer, così spavaldi e divertenti, le loro gesta sono raccontate perfino sulle Zombie Card. Peccato che, Benny lo scoprirà a sue spese, si tratti di persone poco raccomandabili.
L’avventura di questo ragazzino è una sorta di viaggio iniziatico che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Questo tratto del romanzo ricorda molto opere statuarie come It di Stephen King, anche se le “dimensioni” qui sono molto più ridotte.
Da sempre chiusa nella piccola cittadina di Mountainside, la gente non è più abituata a pensare con la propria testa. Nel loro piccolo, i cittadini si sentono sicuri. Non sanno quale orrore si nasconde là fuori, nel territorio di Rot & Ruin. E non si tratta solo dei morti che vagano senza sosta, affamati. Si tratta del rispetto per la vita, della dignità umana, della compassione. Valori che tutti sembrano aver dimenticato, a eccezione di Tom Imura. È così che Benny inizia a comprendere perché suo fratello sia tenuto in così alta considerazione da tutti, a Mountanside, perfino dal sindaco.
Le Zombie Card, l’allegra spensieratezza dei suoi amici Lou Chong e Morgie, la bellezza diafana di Nix, che ha un debole per lui da sempre, tutto sfuma e perde consistenza mentre si rende conto del significato delle cose, che prendono improvvisamente forme nuove.
Così Benny viene a conoscenza, grazie a Rob Sacchetto, artista dell’erosione, di ciò ch

Benny si trova a dover toccare con mano le attività illegali e amorali di Charlie occhio-di-vetro e della sua banda di cacciatori fuori di testa, tutto questo mentre si scatena la ricerca alla Lost Girl, la ragazza leggendaria che da sempre tutti cercano senza riuscire a trovare.
Per Benny, dopo tante domande, cominciano a fioccare le risposte, anche quando non vorrebbe averne. Ma, si sa, con la crescita e l’apprendimento, una vita può cambiare per sempre.
Con questo libro Maberry riesce a divertire, commuovere, appassionare il lettore. E lo invita a pensare. Lo costringe, quasi. A quali siano i veri mali della società, che non è necessariamente quella di Mountainside, ma la nostra, perché Rot & Ruin non è che un miraggio, una possibilità di un futuro verso cui dirigerci, fin da adesso, mentre leggete le righe che sto scrivendo.
Nel complesso si tratta di un bel romanzo, fresco, godibile, che trascina nella lettura senza quasi mai annoiare. Il Terzo Occhio socchiude la sua palpebra, soddisfatto.
(Daniele Picciuti)

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venerdì 28 ottobre 2011
"Zombie Institute for Theoretical Studies", fra scienza e teatro
Si tratta di uno scherzo, una “sciarada”, ma davvero perfettamente orchestrata.
Navigando sul sito ufficiale www.zombiescience.co.uk si nota infatti come lo “Zombie Institute for Theoretical Studies”, ente ovviamente fittizio, abbia partner, patrocini e supporter di una certa autorevolezza, primi fra tutti l'Università di Glasgow e il Festival scientifico della stessa città scozzese.
Cosa è quindi lo “Zombie Institute”?
Come dice il nome stesso, si tratta di un ente di “ricerca” e divulgativo che studia la scienza “vera” che si cela dietro i non-morti.
Capo dell'istituto è il Dottor Austin che, come si legge nella sua nota biografica, è un noto “zombologo” (o “zombista”?) nato a Aberdeen e che subito è entrato nel mondo dei non-morti, studiandoli in giro per il mondo e in particolare in Papua Nuova Guinea.
Il Dottor Austin, come ogni accademico che si rispetti, organizza corsi sull'argomento, lezioni in giro per la Gran Bretagna, prepara materiale didattico e libri di testo, fa parte di commissioni d'esame e di laurea in “Zombologia”.
Tutto questo e quant'altro è possibile leggere e scaricare dal sito ufficiale, così come conoscere le date delle lezioni aperte al pubblico. Una speciale sezione permette anche di accedere agli esami on-line, divisi in due livelli, che consentono di ricevere il diploma, certificato, di esperto in studi sugli zombie.
Chi scrive ha avuto occasione di assistere a una lezione del Dr. Austin in occasione del Science Festival di Glasgow nel giugno 2011. La lezione si sviluppa come un mix di serietà e divertimento, di ilarità e di elementi propri degli appassionati di horror con altri che appartengono effettivamente alla comunità scientifica. Slides e power point si alternano con battute e citazioni, rendendo il tutto un gustosissmo spettacolo di 45 minuti, con vere e proprie performance teatrali interattive, capaci di intrattenere, ma anche di parlare realmente di scienza nelle sue varie sfaccettature, dalla fisica alla biologia, per finire con la medicina e la genetica.
Per maggiori informazioni: www.zombiescience.co.uk
(Armando Rotondi)
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Il Sipario Strappato,
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L'alba degli zombie: l'alterità, il contagio, il mostro post-coloniale
Aprile 2011.
In libreria è presente un nuovo volume, tre saggi, tre autori eccezionali: Danilo Arona, Selene Pascarella e Giuliano Santoro. Non solo. Il libro è impreziosito da una gustosa intervista a George Romero dello studioso Paolo Zelati.
Insomma, finalmente un saggio straordinario, ricco di sorprese e di regali, cultura a 360°, per noi voraci fruitori, zombie musi-cine-letterari, affamati di vera cultura.
Il titolo è L’alba degli zombie, voci dell'Apocalisse: il cinema di George Romero.
L’opera, oltre a essere una vera miniera d’informazioni sul cinema di Romero e non solo (il sottoscritto ringrazia calorosamente), è veramente illuminante nel delineare e sviscerare la figura dello zombie, la sua iconografia, le ragioni culturali, economiche e sociali che hanno portato questo mostro, questo amabile buontempone, a popolare le nostre metropoli.
Ma cosa si può trovare in questo fantastico saggio?
Innanzitutto il libro descrive, attraverso alcune milestone, la storia di questi simpatici non-morti attraverso il cinema, la letteratura, la filosofia, le scienze sociali, la cultura popolare. Il volume individua una data cardine, il 1968, con il capolavoro The night of the living dead.
Ci si trova subito di fronte a una seria analisi molto approfondita da cui si originano diverse direttrici che vengono successivamente ampliate nelle pagine che seguono. Infatti i film "of the living dead" vengono sapientemente analizzati in tutte le loro componenti, dalla trama, alle scelte estetiche dei registi, alle implicazioni politico-religiose e morali, al sistema economico, al problema etico, tutto quanto ha determinato la nascita, ovvero l’alba dell’icona-zombie.
Ho trovato veramente illuminante l’analisi socio-antropologica di questa icona, ravvisando dei collegamenti con il lavoro dell’antropologo Michael T. Taussig, professore alla Columbia University e autore del testo The Devil and Commodity Feticism in South America. Questo testo parla del movimento sindacale dei contadini nella valle di Cauca dove è stata introdotta forzatamente la monocultura della canna da zucchero già dall’epoca colonialista spagnola e mostra come da questa frizione sociale, dall’epoca del colonialismo a oggi, scaturisca la figura del Demonio, El Tio, come viene affettuosamente chiamato dagli autoctoni. L’alba degli Zombie cita espressamente proprio l’esempio delle popolazioni coinvolte nella monocultura della canna da zucchero accomunandole a quelle presenti ad Haiti, delineando una particolare e illuminante analisi di antropologia comparata relativa al ruolo dell’icona-zombie all’interno delle società.
Provo ad approfondire quest’aspetto perché che mi è molto caro. Per prima cosa, non ci vuole molto per capire che siamo nell’ambito dei rapporti sociali legati ai sistemi economico-religiosi. In particolare, emergono in maniera molto chiara il disagio e la frizione, in termini sociali, che rappresenta l'imposizione del proprio sistema religioso e, di seguito, del proprio sistema economico (basato sulla schiavitù in epoca coloniale e sul salario in epoca più recente) a popolazioni che hanno già i propri.
Per le popolazioni indigene si è trattato di un completo ribaltamento culturale.
Senza entrare nel dettaglio delle pratiche magiche o delle credenze come effetti che ha prodotto l’imposizione del sistema religioso ed economico europeo sulla popolazione indigena, vorrei menzionare un divertente aneddoto, definito barocco dal suo autore Lévi-Strauss, che dovrebbe chiarire il ribaltamento della prospettiva di queste popolazioni al momento dello sbarco dei colonizzatori nel nuovo mondo:
«Nelle Grandi Antille, pochi anni dopo la scoperta dell'America, mentre gli Spagnoli spedivano
commissioni d’inchiesta per stabilire se gli indigeni fossero o no dotati di un'anima, questi ultimi si
occupavano di immergere i prigionieri bianchi sott'acqua per verificare, con una sorveglianza
prolungata, se il loro cadavere fosse o meno soggetto a decomposizione».
Al di là del pregiudizio etnocentrico di entrambe le società, c’è da chiedersi principalmente come abbia impattato l’introduzione forzata della monocultura in un sistema economico basato sullo scambio e sui rapporti sociali. Quali effetti ha portato la trasformazione del contadino precoloniale e preliberista in schiavo prima e salariato poi? Gli elementi che segnano il mutamento di prospettiva e determinano il meccanismo di sostituzione sono sostanzialmente due, frizione sociale e sincretismo religioso.
Ma cosa c’entrano con gli zombie?
Il decostruzionismo dialettico ha prima individuato e poi messo in evidenza come la rimozione dei rapporti sociali dai sistemi economici abbia sviluppato nell’immaginario collettivo una sorta di magia delle merci e degli oggetti.
Poi c’è un elemento più generale rappresentato da un cambio di prospettiva culturale agli inizi del ‘900 che interessa tutte le culture, soprattutto la nostra.
Si fa riferimento alla nascita dell’economia come scienza avulsa dal contesto sociale. Insomma, agli inizi del ‘900, l’economia inizia a perdere il valore di economia politica in senso aristotelico, laddove l’economia era considerata economia di persone e rapporti sociali e non economia intesa solo come scienza di indici e di grafici dotati di linea di tendenza.
Faccio un esempio concreto: se ho del denaro e voglio investirlo o acquistare delle azioni posso portarlo in banca e attendere che questo s’incrementi. Nel fare questo, generalmente non considero più che dietro il mio interesse c’è un fitto scambio di rapporti sociali ma osservo, come per magia, la mia percentuale e il denaro che si incrementa.
Il problema nel mio caso non si pone, dal momento che di denaro non ne ho. Ma, a parte facili battute, quello che voglio chiarire è che la percezione che il denaro, alla fine, sia un oggetto inanimato e la consapevolezza che sono i rapporti sociali tra le persone che lo incrementano, diviene ogni giorno più labile. La verità è che questo concetto, nella società attuale, passa in secondo piano in favore della magia di una fruttificazione del denaro. 

Il simbolismo latente all’interno della nostra società mostra anche nella scelta dei termini l’animismo legato a questi aspetti.
Parliamo di bull market o di bear market per mercati in rialzo o in ribasso quasi a rappresentare il denaro come un essere animato che possa incrementare da sé la propria prole. Ci sono esempi diffusi che mostrano come un sistema ideologico, basato su questo grosso equivoco, mistifichi e feticizzi continuamente, attraverso varie simbologie, qualsiasi aspetto del nostro vivere quotidiano.
E i rapporti sociali, il lavoro, le persone?
Sì, perché sono sempre le persone il vero valore dei nostri sistemi.
Oggi, il mandato è chiaro, dalle persone dobbiamo difenderci. Ebbene la magia, il misticismo che scaturisce dalle merci unitamente alla cancellazione dei rapporti sociali e del concetto di alterità, e il sincretismo religioso arrivano a determinare quella frizione sociale particolare che determina l’ansia del diverso e la nascita di quello che, con una geniale intuizione, il libro L’alba degli zombie identifica e poi definisce chiaramente come il Monstrum post coloniale.
Sono rimasto impressionato da questa definizione che, con tre parole, sintetizza tutta una serie di relazioni storiche, antropologiche e sociologiche che culminano nel nostro vivere quotidiano.
Non mi dilungo su ciò che lo scontro di sistemi economici e sociali ha portato all’interno di queste culture, rituali, feticci, demoni, zombie, pratiche magiche varie. Una cosa è certa.
Il sistema preliberista delle popolazioni della filiera della canna da zucchero in Sud America e ad Haiti si basava sulle relazioni sociali, il sistema liberista (che i rapporti sociali li ha progressivamente rimossi tutti, in virtù della magia delle merci), ha imposto il proprio sistema religioso creando un Monstrum che per Haiti è diventato lo zombie.
Ma Romero si spinge più avanti. Questo processo simbolico di rimozione dell’alterità e di creazione della magia e successivamente del mostro, come illustra chiaramente il saggio con delle intuizioni geniali, si sposta progressivamente anche presso la nostra società.
I motivi? Esattamente quelli sopra descritti.
Arona riporta, a un certo punto del saggio, un passo di Paolo Zelati: «La notte dei morti viventi ha anche il merito di sottrarre il cinema horror per usare le parole di Carpenter “all’abbraccio mortale del gotico e di trasportare l’orrore che, sino ad allora, era quasi sempre stato ritratto e identificato in un luogo “altro”, direttamente negli Stati Uniti d’America».
Arona, Zelati e Carpenter si riferiscono all’estetica filmica e alle scelte artistiche ma questo periodo mi fa pensare all’operazione culturale, in senso sociale e politico, che esegue Romero nel far nascere gli zombie nella nostra rassicurante società dei consumi, mostrando come essa non sia immune al contagio culturale ma sia impregnata fino alle fondamenta da questo germe magico-economico.
Per Romero, diversamente da altri registi che hanno voluto raccontare lo zombie, non c’è un posto circoscritto in cui far nascere il mostro dell’alterità.
Anche la nostra società, è luogo «altro». La nostra società si prepara all’apocalisse psichica. La nostra cultura vede l’alba degli zombie e l’inanimato, ciò che è morto, come per magia inizia a muoversi e il male, lungi dall’essere l’ennesimo rapporto sociale (ovvero ciò che l’uomo può commettere nei confronti di un proprio simile), assume magicamente un valore ontologico.
Non solo. Lo zombie per alimentarsi ha bisogno di distruggere l’altro, di mangiarlo, di consumare. È animato da una fame inesauribile.
A pagina 77 del libro, ne L’alba degli zombie si legge: “Si sottolinea come terreno da conquistare, in una situazione di super-emergenza, sia ancora di natura squisitamente economica” parlando di un centro commerciale. Il diavolo, El Tio, presso le popolazioni in Sud America, lo zombie, presso le popolazioni di Haiti, il morto vivente nella nostra società, tutti diventano il simulacro dell’alterità negata e sublimata nella magia delle merci.
La paura dell’alterità diventa fobia del contagio.
La paura dell’alterità diventa fobia del contagio.
È evidente, nel saggio, come la zombificazione dei rapporti sociali sia una malattia culturale, la trasformazione di una classe sociale che sopravvive alla propria morte (senza rapporti sociali la società muore), la perpetuazione di un sistema basato sui consumi che impara a mangiare l’altro per sopravvivere. Ne consegue, come illustra Arona riprendendo il tema della teofagia, come il discorso verta sempre su questioni che sublimano l’aspetto religioso e pulsionale, a cui aggiungerei, se mi è consentito, partendo da questa sua calzante intuizione, quello economico.
In questo contesto, il contagio è la trasmissione di un morbo concettuale che viene «inoculato» nelle coscienze dalla mistificazione culturale che opera nella nostra società.
Concludo sperando di non aver annoiato e invitando chiunque legga queste mie laboriose righe a leggere questo saggio meraviglioso che, spiegando gli zombie, parla di noi.
(Luigi Bonaro)
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giovedì 27 ottobre 2011
Fine del mondo in cinque tempi (di Biancamaria Massaro)
Da quando il cinguettare dei passeri ha sostituito il rombo dei
motori, la natura ha cominciato a invadere le città. Piante rampicanti già arrivano
al primo piano degli edifici e ricoprono automobili ferme da tempo. È da poco
passata l’alba quando il fiore apre al sole i candidi petali, mostrando
trionfante il suo cuore dorato. È una comune margherita che si è fatta strada tra
le crepe dell’asfalto. A causarne la morte non sarà la mano di un bambino che vuole
offrirla alla madre, ma il calpestio prodotto da una massa in eterno movimento.
Si sposta lentamente, come lenta è stata la fine del mondo.
La dottoressa Irina Sastri salì in
ascensore con i colleghi senza guardarsi allo specchio. Non lo faceva più da quando
un ragazzino, l’unico rimasto ancora ben educato, le aveva lasciato il posto
sull’autobus. Creme costose, palestra e interventi estetici avevano a lungo
nascosto l’evidenza, ma ormai doveva arrendersi: stava invecchiando. Glielo
ricordavano i giovani amanti di cui si circondava, che ormai solo a pagamento
le dicevano che era bella e desiderabile. Era un processo davvero
irreversibile? No, come sperava di dimostrare insieme alla sua equipe. Sulle
cavie aveva raggiunto già un buon risultato con la rigenerazione cellulare,
perciò si poteva passare a un organismo intero. Sicuramente quello di un
maiale: per molto tempo infatti non le avrebbero concesso di sperimentare il
composto su un essere umano. Irina però non poteva più permettersi di
aspettare, voleva liberarsi dalla pesantezza degli anni. Desiderava subito
l’occasione di rifarsi una vita, una in cui non avrebbe sacrificato il
matrimonio e la possibilità di essere madre in nome della scienza e della
speranza di un nobel. Era nauseata dall’elegante attico vista Colosseo,
ristrutturato e arredato da un famoso architetto, che ogni sera l’accoglieva
freddo e vuoto come un’ospite invadente e indesiderata. Irina non scese a mensa
con i suoi collaboratori, così poté iniettarsi il β3T senza che nessuno la
vedesse, poi disse che si sentiva male e tornò a casa. Sparsi sul pavimento
dell’ingresso c’erano ancora i pezzi dello specchio che aveva distrutto perché
le aveva restituito l’immagine di una donna anziana. Il giorno dopo avrebbe scoperto
se valeva la pena comprarne un altro.
Il mese seguente il β3T aveva
cambiato nome in Rigenera ed era
pronto con cinque anni di anticipo a essere lanciato sul mercato esclusivo dei
ricchi e potenti della terra. La dottoressa Irina Sastri era stata nell’ordine:
licenziata, radiata dall’ordine dei medici, accusata di furto, additata come
mostro e allo stesso tempo adorata come una dea, infine riassunta come
testimonial dalla stessa società che l’aveva cacciata come ricercatrice. La sua
ritrovata giovinezza spiegava infatti più di mille parole gli effetti del nuovo
farmaco. Quando era costretta a parlare dei processi metabolici che attivava il
Rigenera, Irina abbandonava il
linguaggio scientifico che l’aveva accompagnata fin dall’università e spiegava
che le cellule giovani si nutrivano di quelle vecchie, eliminandole. Era ospite
fissa in molti talkshow dove inevitabilmente qualche suo ex collega le chiedeva
se aveva pensato agli effetti collaterali del Rigenera. «Dopo averlo assunto», rispondeva, «si prova un grande
appetito e si soffre di una lieve carenza di ferro. Consiglio a chi lo prova di
mangiare subito dopo una bella bistecca al sangue e un po’ di verdura fresca».
Preferiva nascondere il fatto che da trenta giorni mangiava solo carne cruda e
non toccava una foglia di insalata. Non confessò nemmeno che a letto i suoi
amanti cominciavano a lamentarsi dell’ardore che dimostrava quando li mordeva a
sangue, scambiando per focosa passione ciò che era sempre più simile alla
bramosia di carne umana.
Quella sera Irina stava tornando a
casa, cercando di schivare i giornalisti che le chiedevano se sperava di essere
nella rosa dei candidati al nobel per la medicina. Un tempo le sarebbe
importato, ora non più: in cima ai suoi pensieri c’era qualcosa di inconfessabile,
qualcosa che, dopo che con un morso aveva quasi staccato il capezzolo sinistro all’ultimo
amante, le era costata già una denuncia. Appena uscì dalla macchina tre spari
la colpirono alla schiena. «È la fine che meritano i traditori dell’umanità», avrebbero
rivendicato sulla loro pagina facebook gli evoluzionisti, dimostrando che la
lotta contro il Rigenera che
portavano avanti da mesi aveva abbandonato la via pacifica. Nello stesso
momento in tutto il mondo altri terroristi cercavano di uccidere i ricchi e i potenti
che si erano potuti permettere il
Rigenera. Irina sentì il sangue che le bagnava il vestito da sera e capì
che sarebbe morta, nonostante l’arrivo quasi immediato dei soccorsi che le
tamponarono le ferite e le misero la maschera d'ossigeno. In ambulanza, prima
di perdere conoscenza, cercò di gridare che tutte quelle cure non servivano a
nulla e che avrebbero fatto meglio a offrirle un po’ di carne cruda. Un'infermiera si accorse che cercava di dire qualcosa, così le tolse la maschera e
le si avvicinò per ascoltarla meglio. Ci rimediò un morso che le tranciò di
netto il lobo dell’orecchio destro, perciò non pianse quando l’ex dottoressa Irina
Sastri fu dichiarata clinicamente morta.
Gli evoluzionisti, programmati come un ordigno letale e perfetto, più o meno simultaneamente avevano colpito politici, tiranni, potenti industriali, magnati
del petrolio, maghi della finanza, star del cinema e della canzone e i geni
delle nuove tecnologie, tutte persone che si cercò di salvare a ogni costo. Si
ricorse anche a metodi non convenzionali quali l’utilizzo del β3Z, una versione
potenziata del Rigenera, il cui
studio si trovava ancora alle prime fasi sperimentali. Ai media non fu detto
che i ricchi pazienti, nonostante si trovassero in uno stato di coma indotto,
erano stati legati al letto e forniti di una sorta di museruola perché a volte
si risvegliavano e aggredivano medici e infermieri. Intanto sui siti internet
che di solito parlavano di cerchi sul grano, Yeti e Atlantide apparve la
notizia che, intorno a costose cliniche, erano stati avvistati uomini e donne
vestiti con un camice ospedaliero che si muovevano lentamente e azzannavano i
passanti. Qualcuno in un blog scrisse che un amico gli aveva raccontato che la
fidanzata di un suo cugino aveva visto la dottoressa Sastri aggredire un ragazzo,
ma questo era impossibile: la prima donna ad aver provato il Rigenera era infatti morta qualche
settimana prima in un attentato, lo sapevano tutti. Nessuno poteva immaginare
che il funerale di Irina si era svolto intorno a una bara vuota perché la clinica
privata in cui era arrivata l’ambulanza che la trasportava non aveva voluto
ammettere di essersi persa un cadavere.
All’inizio le polizie di tutto il
mondo decisero di negare gli episodi di aggressione, perciò si pensò che si
stesse diffondendo una nuova leggenda metropolitana, quella del Paziente
Morsicatore. Insomma, una cosa su cui riderci sopra, almeno finché le persone
aggredite cominciarono a essere troppe per poter credere che si fossero
inventate tutto. Si sparse poi la voce che, quelle di loro che erano state
azzannate alla gola, erano morte o si erano messe a loro volta ad aggredire i
familiari. «O entrambe le cose, come mi appresto ad appurare», tentò di
scherzarci su Alberto Manni, scettico giornalista che si offrì di cercare
qualche vittima di un Paziente Morsicatore e intervistarlo. Anzi, visto che
abitava a Roma, avrebbe parlato proprio con Irina Sastri, affamata dottoressa
che in molti su internet sostenevano di vedere mentre aggrediva qualche amico o
un parente, nonostante il suo corpo fosse stato cremato insieme alla bara dopo
lo sfarzoso funerale. La scomparsa di Manni fu considerata una trovata
pubblicitaria; quelle dei suoi colleghi, che anche in altre città provarono a
emularlo, fu invece attribuita a un primo originale serial killer
e ai suoi
imitatori. Furono gli evoluzionisti, nelle pagine che ciclicamente riaprivano su
facebook, a sostenere che i primi Pazienti Morsicatori erano proprio le vittime dei loro attentati, ovvero coloro che avevano usato il Rigenera
perché non volevano invecchiare e nemmeno morire. Il primo loro desiderio era
stato esaudito, mentre per il secondo neanche i terroristi ebbero il coraggio
di parlare di Zombie. Ben presto non ci fu più tempo per parlarne: bisognava solo
correre e combattere. Infine il nulla, solo margherite schiacciate da una massa
affamata in eterno movimento.

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28 Giorni Dopo: London Calling, di Michael A. Nelson, Declan Shalvey e Nick Filardi (Comma 22)
Si sa che di fronte a prodotti editoriali che seguono la scia di franchise
di successo, il rischio è sempre che, al di fuori del nome, esista poco della qualità
del prodotto originale cui quel successo è dovuto.
Il franchise in questione è 28 Giorni Dopo, nato dallo splendido
film diretto dal regista Danny Boyle (Trainspotting,
Sunshine, Slumdog Millionaire; non vorrei ma devo menzionare anche The Beach) e scritto da Alex Garland, a
cui è seguito il non troppo esaltante 28
Settimane Dopo, girato da Juan Carlos Fresnadillo.
Sgombro subito
il campo da qualsiasi dubbio: non siamo davanti ad alcun atto di “lesa maestà”
nei confronti dell’opera di Boyle. La qualità c’è.
Scritta da
Nelson, disegnata da Shalvey e colorata da Filardi, la storia del fumetto si
colloca nello spazio temporale tra i due film. Selena, una dei tre
sopravvissuti di “Casa Worsley”, viene assoldata come guida dal giornalista
americano Clint Harris. Destinazione: Londra, oltre i limiti della quarantena
verso il cuore dell’infezione, per scoprire la causa del contagio. Comincia
così un viaggio dove il pericolo non sarà rappresentato soltanto dagli infetti
d’Inghilterra, velocisti e affamati come chi ha visto i film ben sa.
In conformità
alla pubblicazione americana, London Calling
dovrebbe essere il primo dei sei volumi che compongono le vicende di Selena.

Non ci troviamo
di fronte a particolari stravolgimenti dei canoni del genere, ma l’autore
dimostra di saper dare alla narrazione il giusto ritmo, senza alcun calo di
tensione. Forse, una pecca che i fan del primo film potrebbero trovare sta
nella scelta, almeno in questo primo volume, di privilegiare l’azione
rinunciando alla contemplazione di quei grandi scenari abbandonati e silenziosi
che erano la cifra stilistica dell’opera di Boyle (o almeno della prima metà).
Se i disegni di
Shalvey fanno il loro ottimo lavoro, sono i colori freddi della tavolozza di
Filardi, accesi solo dagli occhi iniettati di sangue degli infetti, a dominare
le tavole. La luce livida e le tonalità spente ci ricordano a ogni passo (o
vignetta) che l’Apocalisse è già avvenuta.
Una menzione
speciale per la qualità va alle stupende copertine di Tim Bradstreet, in grado
di rappresentare iconograficamente una perfetta Apocalisse in salsa punk anni
’70, ottimo richiamo al London Calling
del titolo.
28 Giorni Dopo: London Calling non sconvolgerà
il vostro universo, ma vi darà il grande piacere, con stile e giusta dose di
tensione, di tornare nel Regno Unito, in mezzo agli infetti creati da Danny
Boyle e Alex Garland.
(Marco Battaglia)
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mercoledì 26 ottobre 2011
Deliver me to hell: Avventura Zombie Interattiva
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No Escape: Avventura Zombie Interattiva
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Left 4 Dead: Avventura Zombie Interattiva
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martedì 25 ottobre 2011
The Walking Dead: lo zombie sbarca in Tv
Dal lontano 1968,
quando l’allora ventottenne regista italo-americano George A. Romero sconvolse
il pubblico con La notte dei morti
viventi (Night of the living dead),
rileggendo in chiave apocalittica la tradizione voodoo degli zombie, di acqua
sotto i ponti ne è passata parecchia. Lo stesso Romero di film "zombeschi" ne ha
girati nel frattempo altri cinque (con alterne fortune), altri registi hanno
tentato la sorte gettandosi semplicemente nella mischia, alcuni hanno cercato
un’innovazione che non sempre è andata a buon fine, quelli meno creativi hanno
rischiato la strada del remake. Nessuno, però, fino al 2010, aveva provato a portare
lo zombie in tv. Fino ad allora sembrava un personaggio destinato alle nicchie
di appassionati e relegato (come avvenuto per La notte dei morti viventi) in qualche cinema di serie B, come se
portarlo dentro le case degli spettatori potesse rappresentare un atto
dissacrante. A traghettarlo nella nuova epoca, dove sempre di più il mezzo televisivo
tende a soverchiare quello cinematografico, ci ha pensato Frank Darabont, regista
di capolavori come Le ali della libertà e Il miglio verde e profondo
conoscitore del mondo romeriano.
Con l’operazione The Walking Dead, ispirato alla serie a
fumetti creata da Robert Kirkman pubblicata per la prima volta nel 2003, Darabont
ha riportato in auge personaggi e storie che negli ultimi anni sembravano
essere stati vittima di una sorta di oscurantismo che aveva trasformato gli
zombie in mostri assetati di carne e sangue. Fin dalla costruzione del
primo episodio della season one, I giorni andati, il regista ha dimostrato come il suo obiettivo fosse quello di rimanere ancorato alla
tradizione classica, concentrandosi principalmente nel trasmettere il nulla, il
silenzio e la desolazione di un mondo ormai distrutto. Esemplare sotto questo
punto di vista è la scena iniziale del primo episodio, in cui il vicesceriffo
Rick Grimes (Andrew Lincoln) si risveglia in un ospedale abbandonato dove le
uniche voci sono i lamenti dei morti che vorrebbero uscire dall’obitorio sprangato,
per poi effettuare una ricognizione tra strade deserte, cadaveri avvolti nei
lenzuoli, detriti e ammassi contorti di lamiere, case vuote e abbandonate di
corsa.

Darabont si muove in
punta di piedi in un territorio quasi sacro, raccontando la sua storia lentamente,
prendendo le distanze dai recenti action-movie
alla Resident Evil o The Horde, per concentrarsi invece sui personaggi, veri
protagonisti della serie. Rinnovando l’ideologia romeriana, il regista di origini
ungheresi fa degli zombie lo specchio della disgregazione sociale,
utilizzandoli come motivo scatenante dei
conflitti tra gli esseri umani. Pur nella loro feroce fisicità (sfondano
vetrine e abbattono cancelli) i mostri di Darabont rimangono degli strumenti
per analizzare la psiche umana e la sua reazione a una situazione al limite
come quella in cui si trovano i sopravvissuti. Emblematica in tal senso una
scena del secondo episodio della prima stagione, Una via d’uscita, in cui si scatena una rissa sul tetto
dell’edificio (un grande magazzino come in Zombie
di Romero!) dove sono assediati i sopravvissuti, per decidere “chi comanda”. Darabont
sembra volerci dire che l’uomo non è cambiato: egoismo, rabbia, frustrazione e
voglia di rivalsa sono rimasti tali e in quella determinata situazione
diventano armi più pericolose degli stessi zombie.
Come nella più
classica trasposizione cinematografica (basti ricordare la fine che fa, al
termine del film, il protagonista di La
notte dei morti viventi), in The Walking Dead
non ci sono pertanto eroi, ma soltanto uomini e
donne in cerca di una nuova casa e desiderosi di ristabilire l’equilibrio perso
con il ritorno in terra dei morti. Eppure, personaggi come lo stesso Rick
sarebbero perfetti per ricoprire il ruolo del salvatore della patria, ma non è
questo che interessa a Darabont e soci, quanto piuttosto il mettere in rilievo
la meschinità e la piccolezza dell’uomo che perfino in situazione così al
limite non smette di sorprendere per la sua infinita stupidità. Lo stesso Rick
è in fondo il classico padre di famiglia col senso di colpa, per cui
l’apocalisse rappresenta la possibilità per rinsaldare i legami familiari, ma
sempre più schiacciato dal peso della responsabilità di essere il leader dei sopravvissuti
(elemento acuito fin dalla prima puntata della seconda stagione appena arrivata
in Italia); Shane Walsh (Jon Bernthal) è l’uomo ferito nel proprio orgoglio
maschile che, persa ogni speranza di diventare il punto di riferimento del
gruppo dopo l’arrivo di Rick, all’inizio della seconda stagione decide di voler
abbandonare i suoi compagni di viaggio; Andrea (Laurie Holden) è invece la
donna arrabbiata col mondo che, dopo la tragica morte della sorella, cerca
soltanto una veloce via d’uscita da quell’inferno o qualcuno a cui dare la
colpa di tutto; Dale (Jeffrey DeMunn), infine, è il presunto “saggio” della
compagnia, colui che dovrebbe dispensare consigli e fare un po’ da guida
spirituale del gruppo, ma alla fine si rivela più un vecchio alla ricerca di
una persona di cui prendersi cura (la trova in Andrea, salvo poi ricevere da
lei un arrabbiato invito a “farsi i cazzi suoi”), probabilmente a causa anche
qui di sensi di colpa che si trascina dalla precedente vita. Saranno forse
anche degli stereotipi, ma sta di fatto che i personaggi di The Walking Dead sono quanto di più
normale e terreno possa esistere, schiavi delle proprie debolezze e della
visione microscopica che hanno del mondo che li circonda. Gli zombie darabontiani
(esteticamente magnifici) fanno solo da contorno a tutto questo, ogni tanto
addirittura da semplici comparse.
Sia la prima stagione
che l’inizio della seconda sono caratterizzate da poca azione (per lo più concentrata
all’inizio degli episodi), ma da una spessa introspezione: tutte le puntate cominciano
in modo lento e con molti dialoghi, al fine di farci interagire con i
personaggi, creando quell’empatia che permette alle vicende narrate di entrare
nelle nostre case e di amplificare il messaggio di condanna che sta alla base
della serie tv. Come per Romero, anche per Darabont l’apocalisse zombesca è infatti
una conseguenza naturale della scelleratezza umana, dell’egoismo dell’uomo e
della sua violenza. Gli zombie darabontiani rappresentano quindi il castigo
divino, lo tsunami che cancellerà tutto il male procurato dall’uomo, nella
speranza di un anno zero da cui ripartire.
Il fenomeno The Walking Dead ha trovato terreno
fertile anche su internet dove è reperibile un’interessantissima web serie
diretta da Greg Nicotero (l’autore dello splendido make-up zombesco della serie
tv), in cui si racconta la storia di “torso”, il primo zombie che Rick Grimes
incontra una volta uscito dall’ospedale. Un esperimento notevole, girato molto
bene, e più sanguinolento rispetto alla versione televisiva.
(Marcello Gagliani Caputo)
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Tutto inizia dalla fine: intervista ad Andrea G. Ciccarelli, direttore editoriale di saldaPress
Come se non
bastasse, dal 2009 saldaPress decide di inaugurare una apposita collana a
fumetti dedicata agli zombie, dal nome tanto semplice quanto efficace: “Z”.
Vedono così la luce per il mercato italiano opere come Fragile, di Stefano Raffaele; Raise
the Dead, scritto da Leah Moore (figlia di Alan) e dal di lei consorte John
Reppion, per i disegni di Hugo Petrus; Gli
Zombie che Divorarono il Mondo, di Jerry Frissen e Guy Davis.
Inoltre, il
blog http://zetacomezombie.blogspot.com/, gestito da
saldaPress, costituisce sempre una fonte interessante di notizie e curiosità a
tema.
Dal momento
che The Walking Dead (serie TV) sta per
tornare in onda con la seconda stagione, il decimo volume del fumetto sta per
uscire e a noi gli zombie piacciono tanto, abbiamo avuto l’occasione di fare
qualche domanda ad Andrea G. Ciccarelli, direttore editoriale di saldaPress, a
proposito di “Z”, di horror a fumetti, di TWD e, ovviamente, di zombie.
Per quanto il termine sia spiacevole, si parla ormai da
mesi di “fenomeno zombie”, è sotto gli occhi di tutti. Eppure, voi pubblicate The Walking Dead già dal 2005 e nel 2009
avete inaugurato ufficialmente la collana “Z”, con Fragile. Siete stati voi a essere più bravi degli altri, o sono
stati gli altri a essere più lenti?

Ci può raccontare come avete scoperto e deciso di
pubblicare The Walking Dead?
All’epoca, vi aspettavate che il fumetto avrebbe avuto un tale successo
planetario?
Ci è stato
proposto da Image Comics di diventare l'editore italiano di TWD. Credo che al
tempo negli USA fosse uscito solo il primo volume (forse anche qualche albo del
secondo perché mi ricordo i dubbi sul cambio di disegnatore. Dubbi che, con il
senno di poi, anche se comprensibili, – il cambio di stile era netto – non
avevano motivo di essere: Tony Moore è bravissimo ma Charlie Adlard è perfetto
per TWD). L'ho letto e mi sono innamorato del ritmo narrativo che Kirkman aveva
dato alla storia, della sua capacità di restare fedele al canone Romeriano
sfruttando la potenzialità propria del fumetto seriale di creare una storia
zombie che continua. Così, molto semplicemente, abbiamo fatto la nostra
proposta per l'edizione italiana e Image Comics l'ha accettata. Confesso che
all'inizio i numeri non erano confortanti: nei primi mesi TWD vendeva
pochissimo ed eravamo tutti abbastanza giù per questa cosa (una piccola casa
editrice com'è la nostra si può permettere solo una manciata di titoli in
passivo senza andare a gambe all'aria). Poi, pian piano, credo soprattutto
grazie al passaparola tra i lettori, le copie vendute sono aumentate e, da lì,
hanno continuato ad aumentare in maniera costante arrivando a costruire il
successo di vendita che è oggi, E, incrociando le dita, grazie anche alla serie
tv, sembra che la tendenza sia ancora quella.

Continuiamo
a guardarci intorno alla ricerca di nuovi titoli interessanti da proporre ai
nostri lettori all'interno della collana "Z". A San Diego,
quest'anno, abbiamo preso accordi per pubblicare un paio di serie USA che sono
sicuro piaceranno molto al pubblico italiano. Ma stiamo tenendo d'occhio anche
il panorama francese dove, nel cinema come nel fumetto, si stanno facendo
avanti molti titoli interessanti a tema zombie. Per adesso posso solo
confermare che a inizio 2012 pubblicheremo il secondo capitolo di Raise the Dead (a parte TWD, il titolo
più amato dai lettori italiani all'interno della nostra proposta zombie) e,
direttamente dalla Spagna dove è ormai un hit di vendita, la parodia di TWD (la
serie a fumetti e quella tv) che noi abbiamo deciso di ribattezzare The Walking MAD!. In più, per ampliare
l'offerta legata a TWD, abbiamo acquistato i diritti per pubblicare in Italia The Walking Dead Chronicles il bel
lavoro del giornalista e scrittore Paul Ruditis che, attraverso interviste al
cast, foto, disegni e molto altro ancora, racconta la genesi della serie tv,
analizzando in profondità i singoli episodi e mettendoli a confronto con la
serie a fumetti.
Secondo lei, che significato ha la figura dello zombie e
relativa apocalisse negli anni ’10? Cosa hanno da dirci oggi i non morti?
Posso dire
che mi ha molto colpito un libro che si intitola "Il contagio" e che,
invece di zombie et similia, parla della crisi economica nel mezzo della quale ci
troviamo e di come questa rivoluzionerà la nostra idea di democrazia (l'ha
scritto l'esperta di economia Loretta Napoleoni). Gli zombie oggi sfilano a
Wall Street per protestare contro gli speculatori della borsa che si nutrono
del lavoro della gente, esiste il concetto di "zombie bank" (banche
che operano nonostante siano già fallite, prendendo soldi dal Governo senza
fare prestiti) e, più in generale, la zombie walk è una delle tipologie di
flash mob più diffuse. Insomma, la figura dello zombie oggi è più attuale che
mai e se ci fa ancora paura, ce ne fa per gli stessi motivi profondi e concreti
intuiti a suo tempo da George Romero. Lo zombie porta con sé l'immagine di una
forza immensa e inarrestabile che, con una logica per noi incomprensibile, rade
al suolo un intero sistema sociale, lo abbatte puntando diritto alle sue
fondamenta. È una paura profonda dell'essere umano che, però, come tutte le
paure, racchiude al suo interno un desiderio altrettanto profondo: quello della
rinascita.

Se la
domanda riguarda un parere personale, sono un tradizionalista e quindi rispondo
"zombie lenti". Ma mi sembra coerente anche la spiegazione che hanno
dato i produttori della serie tv di TWD: la velocità dipende da come è messo lo
zombie in questione.
Sembra che il fumetto horror americano se la cavi sempre
bene. Hellblazer è immortale, case
editrici come Dark Horse, IDW e Image continuano a fornirci autori come
Mignola, Niles, Layman, oltre ovviamente a Kirkman, solo per fare qualche
esempio. Del fumetto horror italiano cosa mi dice?
Non ne
conosco molti (a parte Dylan Dog che, di tanto in tanto, qualche buona
storia horror ce la propone, soprattutto
quando la sceneggiatura la firma Paola Barbato) ma posso dire che, prima o poi,
mi piacerebbe produrne uno proprio per la collana “Z”. Detto questo mi accorgo
di aver detto una mezza fesseria perché invece di ottimi fumetti italiani
horror ne conosco eccome: Gianluca Morozzi (con Giuseppe Camuncoli e Michele
Petrucci) ha sceneggiato degli ottimi fumetti horror (Il vangelo del coyote e FactorY).
Sotto un cielo cattivo di Matteo
Casali e Grazia Lobaccaro è una bellissima epopea horror e, pur lavorando ai
margini dell'horror strettamente inteso, anche Alessandro Bilotta con il suo
psicanalista dei fantasmi Valter Buio
ha proposto al pubblico italiano una bellissima serie a fumetti orrorifica.
Forse l'industria fumettistica statunitense è solo più brava della nostra a
capitalizzare le potenzialità dell'horror e a portarle a sistema. Su questo
forse occorrerebbe una seria riflessione.
Mi rendo conto non essere di sua stretta competenza, ma
sono sicuro che anche lei segue le vicende attorno la serie TV di The Walking Dead. Un’opinione sulla
serie e su quello che sarà il suo futuro? Ovviamente mi riferisco
implicitamente al licenziamento di Frank Darabont.

Grazie ad Andrea G. Ciccarelli e a saldaPress per la
disponibilità.
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lunedì 24 ottobre 2011
La lunga marcia del morto vivente nella letteratura
«Sono qui per restare». Così nel 2009 una portavoce della St.
Martin Press davanti ai tanti libri che già allora inondavano il
mercato USA facendo dello zombie il pretendente al trono
dell’aristocratico vampiro. «Missione compiuta» possiamo dire
oggi noi, davanti a un nuovo ”caso” culturale, meglio senza
ingolfarsi nel logoro dibattito: operazione di marketing o figura,
quella del morto vivente, che sa parlare alla nostra contorta psiche
di figli del XXI secolo?
Una cosa è certa: queste creature vengono da lontano. Anche se sarà
La notte dei morti viventi di George Romero (1968) a
codificarne l’immagine, l’idea di esseri non morti affamati di
carne umana si trova già in opere come l’Epopea di Gilgamesh,
qualcosa come 4500 anni fa. O nelle Mille e una notte, con i
suoi ghoul, e nelle cronache medievali dell’XI secolo.
All’inizio
il morto vivente è solo una variante del Revenant, creatura che
torna dalla morte per vendicarsi, e si confonde spesso e volentieri
con il vampiro. E il mostro in cerca di vendetta è un tema forte nel
Frankenstein di Mary Shelley (1818), non una storia di zombie
ma seminale per l’idea del morto rianimato come creatura violenta e
degenerata. Lungo il XIX secolo, il tema sarà frequentato anche da
Edgar Allan Poe con il suo Testimonianza sul caso del signor
Valdemar (1845). La storia dell’uomo che muore dopo essere
stato ipnotizzato, e il cui corpo rimane in stato d’ipnosi, sospeso
in una morte–non morte eterna, fissa per la prima volta il
paradosso di ogni storia di zombie. Con il morto ritornante giocherà
anche Ambrose Bierce con La morte di Halpin Frayser (1893),
uno dei tanti racconti di questo maestro del brivido da sempre
abbastanza sconosciuto al lettore italiano.
Di certo non sconosciuto a H.P. Lovecraft, che non mancherà mai di
fare omaggio a Bierce. In effetti, Il Solitario di Providence
esplorerà più volte temi simili: Pensiamo alle disavventure del
becchino George Birch di Nella cripta (1925) o ad Aria
fredda (1926), incubo newyorkese di disintegrazione corporea,
senza dimenticare poi il famigerato Herbert West Rianimatore
(1922), da cui Stuart Gordon trarrà il celebre Reanimator del
1985. La storia del dottor West, brillante, narcisista e amorale
scienziato alla ricerca di un siero per resuscitare i morti, sembra
quasi una parodia di Frankenstein con le sue scene
esageratamente violente, sanguinarie, piene di cliché e quasi
comiche. Considerato da tutti la peggior cosa mai scritta da
Lovecraft, Herbert West ha però il merito di aver dato un
contributo fondamentale a definire il morto vivente nella cultura
moderna, nei suoi istinti e comportamenti. Forse molto più
dell’Isola magica dell’occultista William Seabrook (1929),
con i suoi racconti sensazionalisti sulle pratiche voodo di Haiti che
segnano l’ingresso della parola “zombie” nel linguaggio
corrente, e il suo (con)fondersi con il tradizionale Revenant.

Non ci son dubbi: queste orde affamate si sono conquistate al loro
passo lento, durato secoli, un posto sotto il sole dell’immaginario.
Ci sono riuscite violando il confine tra vita e morte, infrangendo
tabu sociali e stemperando l’infrazione con una fisicità grottesca
e assurda. Un modo per noi di affrontare l’idea della morte e di
esorcizzarla ridendo, a pensarci su. E forse la ragione per cui «sono
qui per restare».
(Francesco G. Lo Polito)
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